Settimo cielo
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Un film coraggioso sulla sessualità nella terza età. Così hanno scritto tutti, ma proprio tutti, di questo film tedesco, mettendo le mani avanti: un film che potrebbe scandalizzare le anime belle; un film contro ogni forma di moralismo e pregiudizio. Quanta è però la distanza tra le recensioni infiorettate piene di trasporto e la nuda verità dell’immagine. Perché vedendo Settimo cielo viene in mente tutto ma proprio tutto, tranne le parole che nelle recensioni che i giornalisti italiani hanno usato a iosa, parole come amore, sessualità, terza età, felicità. Se quella dipinta da Dresden è un’immagine realistica della vecchiaia - ce lo suggerisce lo stile semidocumentario, molto diretto e privo di decorazioni - Dio ce ne scampi: gente intrappolata in corpi cadenti, trappole di rughe che, avvicinandosi inarrestabile l’ora della morte, cercano di gustarsi tutto ciò che è ancora possibile, sesso in primis. Neanche fossimo in una versione col pannolone de L’attimo fuggente. Così, la parabola della protagonista, pensionata ultrasessantenne, una vita divisa tra gli impegni del coro e i lavori domestici, letteralmente sconvolta dalla passione per un ultrasettantenne ancora e a cui concede anima e (soprattutto) corpo. Non è un particolare da poco quello del corpo. Lo sguardo del regista, nel rappresentare una legittima, per quanto discutibile da un punto di vista morale, relazione extraconiugale, non suggerisce nulla né lascia intravvedere alcunché. Non lascia lavorare minimamente l’immaginazione dello spettatore a cui serve invece una toppa della serratura da cui guardare, più con ribrezzo che con desiderio o curiosità, le performance sessuali dei protagonisti. Su cui non ci dilungheremo: non ne vale la pena. C’è modo e modo per raccontare l’amore in una coppia: c’è un modo diretto, voyeuristico, fatto di particolari più o meno urticanti o eccitanti che è patrimonio di Andreas Dresden e di tanti registi “scandalosi” prima di lui, e c’è un modo più delicato, rispettoso, decoroso attraverso cui lo sguardo del regista accompagna più che filma l’amore. E’ lo sguardo di tanti registi del passato che hanno reso grandi e poetici e, a volte, persino desiderabili pur nella drammaticità, tanti triangoli del passato. Uno per tutti: Jules et Jim di François Truffaut. Ma qui stiamo parlando di un altro pianeta quanto a sensibilità, capacità e spessore umano. La storia di Settimo cielo è la cronaca squallida di una passione assolutamente corporea e carnale a cui si vota la protagonista negando tutto il resto di sé, compreso il povero compagno da trent’anni, relegato a un certo punto della vicenda a semplice comparsa. Una storia di solitudine estrema, dove la donna prende le proprie decisioni da sola o con l’avallo tristissimo della figlia, succube di eventi più grandi di lei a cui non riesce a opporre resistenza. E’ la storia di una donna schiava, prima nella routine di un matrimonio, terribilmente rappresentato dai frequenti viaggi in treno senza meta dei coniugi, poi nella passione insensata eppure tanto agognata verso un altro uomo per il quale sacrificherà tutto. Soprattutto, Settimo cielo è il racconto di una vita allo sbando, slegata da rapporti umani significativi, la storia di una vecchia adolescente o un’adolescente vecchia, incapace di vedere ciò che è bene e ciò che è male, guardata dal regista apparentemente in un’ottica imparziale, in realtà rappresentata più che come persona, cioè come complesso di sogni, desideri ed esigenza, come semplice contenitore-corpo attraverso cui sfogare i propri istinti, le proprie voglie, la propria disperazione. Ma l’uomo, la donna, il giovane ventenne e l’anziana settantenne sono qualcosa di più che un corpo flaccido o robusto e il sentimento, fosse anche il più confuso e fuorviante, va ben oltre i centimetri del sesso.