Soffocare
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Dopo Fight Club, è il secondo adattamento da un romanzo di Chuck Palahniuk. A dirigerlo è Clark Gregg, esordiente come regista, in realtà una lunga carriera di caratterista e anche sceneggiatore (tra le altre cose ha firmato la sceneggiatura de Le verità nascoste di Zemeckis). La storia, volutamente sopra le righe e calcata nei toni, racconta di un uomo, Victor, sessuomane impenitente, delle sue performance sessuali e degli ultimi giorni al capezzale della madre interpretata da Anjelica Huston, che per la malattia ogni giorno pare non riconoscerlo. Film dissacrante, con alcune sequenze di dubbio gusto (le ripetute scene di sesso ambientate nella cappella cattolica dell’ospedale), parecchio irrisolto sia nell’evoluzione dei personaggi di contorno (l’amico del protagonista, la dottoressa stessa), sia nello stesso finale deludente e anonimo. Gregg, anche sceneggiatore, adotta uno stile grottesco, fatto di personaggi assolutamente imprevedibili e situazioni impreviste e con queste cerca di bilanciare il plot melodrammatico in ospedale: alcune sequenze strappano la risata, come quelle sul luogo di lavoro di Victor, molte altre, come in generale tutti i vari amplessi flash del protagonista sono troppo ripetute e prevedibili. Non pare esserci grande spessore né da un punto di vista psicologico e tantomeno da un punto di vista cinematografico e il film può urtare perché potrebbe sembrare (e a tratti lo è) un giochino fine a se stesso. Eppure non mancano alcune notazioni interessanti: è il primo film, a nostra memoria, sulla sessuomania come malattia fisica e psichica, come un disagio strettamente collegato alla infanzia travagliata di Victor e della sua impossibilità di legarsi a rapporti duraturi. Il sesso cioè, duro e crudo, un orgasmo triste e nemmeno troppo intenso che fa dimenticare per un attimo i dolori della vita. E non è male nemmeno il tentativo di ricostruzione del rapporto tra la Huston, bravissima come sempre, e il figlio, così come il titolo che rimanda ai soffocamenti che solo in parte simula Victor nei ristoranti per avere qualcuno da cui farsi salvare e a cui aggrapparsi anche se solo, anche in questo caso, per un attimo. Un film triste e disperato, dominato da una mancanza di punti fermi: Victor non ha famiglia, non ha legami significati se persino l’amico andrà a un certo punto per la sua strada. Non ha nemmeno un’identità precisa, se è vero che di lavoro fa il figurante per un parco tematico ottocentesco. A definirlo è soltanto l’organo sessuale che usa in modo morboso e malato, l’unico “strumento” che gli consente di entrare in rapporto con una realtà altrimenti insondabile, senza senso, senza prospettive. Una cupa, e però realistica, fotografia dell’Occidente di oggi, gaio, sex addicted e terribilmente disperato.