The Hurt Locker
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Adrenalinico e perennemente in stato di tensione. E’ questa cifra stilistica, prima ancora che di contenuto del cinema di Kathryn Bigelow, forse la regista donna più in gamba a raccontare il mondo dei maschi. L’aveva fatto, e bene all’inizio degli anni ‘90 con Point Break – Punto di rottura, il film che celebrava l’adrenalina di una banda di rapinatori (che, genialmente, si mascheravano con le facce dei Presidenti degli USA per compiere le proprie “imprese”). Qualche anno più tardi, Strange Days, il capolavoro della regista californiana ex moglie di James Cameron. Un’altra storia adrenalinica e assai cupa con al centro le fragilità psichiche e fisiche di un antieroe letteralmente salvato da una donna, sul finire del secolo. Poi, qualche passo falso, il non eccezionale Il mistero dell’acqua (2000); il solido K -19 (2002) e ora The Hurt Locker. La storia di una “dipendenza”, quella dalla guerra e dalla tensione che la guerra trascina con sé. Protagonisti un gruppo di uomini componenti una squadra di sminatori alle prese col pericolo quotidiano. La Bigelow riesce nell’impresa di raccontare la guerra da un punto di vista interno, quello dei protagonisti con cui lo spettatore si accompagna nella routine di ogni giorno tra pericoli, sospetti di chiunque, crudeltà. E’ la guerra, punto e basta. Non servono discorsi o proclami o, peggio ancora, buoni propositi, per raccontarla. E’ la guerra che tira fuori il peggio (ma a volte anche il meglio) dell’uomo. Così si esce quasi storditi dalla proiezione, perché si ha paura, eccome, durante il film. E non tanto del pericolo sempre presente costituito dal disinnescare una bomba, ma dall’ignoto e dal caos che regnano sovrani in una guerra, e soprattutto in quella in Iraq. Corpi di bambini usati come bombe, telefonini usati come timer per le bombe: il vero pericolo per i soldati laggiù, sembra dire la Bigelow, non è il terrorista, ma è il fatto che il terrorista non abbia volto. E forse nemmeno una coscienza.