Direttamente dalla concentrazione di Hugo Chavez
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Sono le prime ore del pomeriggio e il leader del movimento bolivariano Hugo Chavez si rivolge alla massa dei suoi simpatizzanti con la frase: “Siamo tutti qui e tutti rossi”.
Ha ragione. Di fronte a lui, migliaia di persone calzate in magliette e cappelli rossi, lo avvolgono in un manto di gloria. Quella gloria che lui stesso si è inventato battezzandola “Socialismo del secolo XXI”.
Tutti rossi, tutti socialisti e soprattutto tutti uguali. Non era forse il sogno di Karl Marx, di Stalin, di Mao, di Castro?
Sono tutti qui. Migliaia di seguaci che, nell’atto di chiusura della campagna alla rielezione, lo accompagneranno sino a quando, se vince, verrà successivamente nominato dallo pseudo-parlamento, presidente a vita.
Tutti i suoi predecessori, a parte Marx, hanno raggiunto il sogno dorato del dittatore: quello di essere acclamato dal parlamento e quindi dal popolo. Perché dunque, non lui, il “caudillo del petrolio”?
Tutti rossi, tutti uguali e tutti poveri. Oggi più poveri e più tristi che mai. Escono dalle baraccopoli o ranchos o città perdute, o favelas, secondo la latitudine nella quale sono ubicate, però tutte uguali nella tragedia di pareti di latta e tetti di cartone.
Escono per incontrare i camion, gli autobus, “i capataz”, che li trasporteranno nei luoghi della concentrazione, del meeting politico. Se domandi a uno di loro “dimmi, ti obbligano a partecipare?” non ti rispondono, ma abbassando la vista ti gridano, quasi come una sfida o una difesa, l’oramai famoso slogan “Uh... Ahhhhh... Chavez no se va”. Non ti chiedere da che o da chi si difendono. Hanno paura... Paura di soffrire. Paura delle rappresaglie. Paura dei novantamila morti degli anni del regime chavista. Paura per i figli, le mogli, le famiglie.
Ognuno di loro è dotato degli strumenti per il lavoro: una maglietta rossa, un basco rosso, un panino e la possibilità di raggiungere spacci di alcolici posti lungo il percorso. Un lavoro triste, un lavoro forzato e indegno, però senza il quale ti hanno convinto che non puoi più vivere.
Sono mille, è vero. Sono centomila forse e dietro a loro, centinaia di camion e di autobus che li riporteranno a casa, stanchi, alcuni ubriachi, molti insoddisfatti per le mille promesse incompiute e cento volte ripetute, ma tutti con la certezza che domani, solo domani continueranno la vita miserabile alla quale sono condannati.
Questo è il meeting del socialismo del XXI secolo. Questo è il socialismo per il quale e nel quale è affondata Cuba e affonderà la Bolivia. Una monarchia nella quale l’improvvisato imperatore sotto il manto della democrazia, utilizza i poveri per colpire nel cuore la libertà che dovrebbe garantire.
Il vecchio e oramai delirante Fidel, da anni ha scoperto che il punto debole di ogni società sono i poveri, quelli che per una o mille ragioni, vivono al margine della società. Giustificata o no l’esclusione ha creato uno stato di odio e di vendetta sulla quale si fonda il socialismo chavista.
“Ogni povero ha diritto al voto e io sono la sua voce”. Una frase lapidaria e una promessa che mai sarà compiuta, ma che lui userà come arma per ferire a morte i sogni di quelli che hanno lavorato e lottato per spingere avanti la nazione.
È oramai quasi notte, inizia il lento drammatico ritorno alla realtà dei palazzi di cartapesta, dei giardini d’immondizia e dei ruscelli di acque fetide che scorrono fra i ranchos. Stanchi, ubriachi, con in tasca i famosi trenta denari, domani si affacceranno a un mondo che forse sarà dipinto solo di rosso, nel quale sarà proibito pensare e sognare. Un paese dove ogni volo dell’intelletto sarà guidato come il filo di un aquilone nelle mani del gran padre del socialismo del secolo XXI, Hugo Chavez.
Dio mio, che incubo. Fammi svegliare, ti prego, in una realtà dove l’uomo sia un uomo e possa sentirsi libero e possa sognare.
Salviamo Venezuela