Rassegna stampa, 9 marzo 2005
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«Corriere della sera», 9 marzo
Il cadavere di Maskhadov in tv. Putin: la caccia continua Cecenia, ucciso dai russi il leader dei separatisti
TOLSTOJ-YURT (Russia) - Le truppe speciali russe hanno scovato e ucciso in Cecenia il leader dei separatisti, Aslan Maskhadov (foto Reuters). Il suo cadavere è stato mostrato in tv e il presidente Vladimir Putin ha esortato a «continuare la caccia». Ora il leader più conosciuto della guerriglia è Shamil Basayev, su posizioni più estreme di quelle di Maskhadov
IL FUOCO CHE BRUCIA OGNI TRATTATIVA di ALBERTO RONCHEY
L’uccisione di Aslan Maskhadov, eletto dal ‘97 alla presidenza della Cecenia e musulmano moderato, testimonia che ancora non si spengono i fuochi tra Mosca e il Caucaso. Quei fuochi furono accesi negli anni 90, dopo una tragica e lunga storia. I ceceni, europoidi caucasici, islamici sunniti, nei secoli XVIII e XIX combatterono contro i russi guerre tribali e religiose fino al 1859. Dopo la definitiva sconfitta del loro eroe, Shamil, furono inglobati nell’immane mosaico etnico dell’impero zarista, il «carcere dei popoli» ereditato dall’Urss di Lenin e Stalin. Durante l’invasione tedesca nell’ultima guerra mondiale, furono in parte collaborazionisti come altri caucasici. Avevano esperienza del dominio staliniano, scarsa conoscenza del razzismo hitleriano. Per ukaz di Stalin, furono in massa deportati con lunghe sofferenze, come Krusciov ebbe a ricordare nel suo rapporto. Più tardi ricondotti nel Caucaso, non fu mai sradicata la loro latente avversione al potere di Mosca.
Nel periodo brezneviano, le tendenze centrifughe dell’impero bicontinentale venivano stroncate con il Gulag e i «manicomi politici». Ma più tardi, tra il collasso del sistema economico e il discredito dell’ideologia transnazionale, l’ultimo impero cominciò per gradi a sfaldarsi. Nell’89, dopo la ribellione di Solidarnosc in Polonia, la guerra d’Afghanistan e il crollo del muro di Berlino come bastione avanzato del potere di Mosca in Europa, lo sfacelo giunse all’ultimo stadio. Il 21 dicembre ‘91, con un semplice telefax da Alma Ata a Mosca, l’Urss veniva dichiarata dissolta. Perdeva l’Ucraina, la Moldavia e la Bielorussia, le cinque repubbliche dell’Asia centrale come le tre del Baltico e la Transcaucasia dalla Georgia all’Armenia e all’Azerbaigian. Mai, nella storia, uno sconfinato impero era stato colpito da una simile morte. Rimaneva la Federazione Russa, estesa pur sempre tra due continenti ma vulnerabile ai fermenti più o meno sediziosi d’innumerevoli etnie, come ceceni, ingusci, daghestani, kabardino-balkari, karaciai, circassi e numerosi altri.
Subito riemerse il tenace indipendentismo dei ceceni, all’inizio tollerato da Mosca, poi fomentato e assistito dal terrorismo islamista. Come testimonia Mikhail Gorbaciov, la regione divenne «terra di nessuno battuta da criminali e contrabbandieri». Boris Eltsin, dopo il primo e rovinoso conflitto ‘94-’96, concesse alla Cecenia un’indipendenza di fatto, sia pure con rilevanti errori. Ancora tre anni tumultuosi. Quell’esperienza, fra le rivalità politiche insorte a Groznyj e le infiltrazioni di Al Qaeda, suscitò l’allarme del Kremlino anche nel timore d’un contagio fra gli altri caucasici, benché diversi e spesso discordi.
Dopo le incursioni del ‘99 nel Daghestan e gli attentati nella Russia sgomenta, Vladimir Putin ordinò contro i ceceni repressioni che risultarono indiscriminate oltreché devastatorie. Qualche stratega di Mosca voleva forse attualizzare la massima di Friedrich Engels: «La storia è la più crudele di tutte le dee, guida il suo carro trionfale su montagne di cadaveri». Il terrorismo già spietato, a sua volta, divenne sempre più feroce, dall’episodio del teatro Dubrovka fino al massacro degli scolari di Beslan in Ossezia.
Eppure Putin, viene segnalato da Mosca, di recente ha concesso alla Cecenia gli interi proventi del petrolio estratto nel suo territorio e già destinati al bilancio federale. Troppo tardi, forse. Ora, scomparso Maskhadov, qualsiasi trattativa con il jihadista Shamil Basaev appare impossibile. È questo che vuole Mosca? Come finirà? Nel Boris Godunov, Pushkin fa dire a Shujskij: «Come finirà? Il popolo ancora griderà, sì, e piangerà».
Ucciso dai russi il leader ceceno Maskhadov L’ex presidente eliminato dalle truppe speciali vicino a Grozny. Il Cremlino: «La caccia non è finita»
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
MOSCA - Dopo mesi di caccia, le truppe speciali russe sono riuscite a eliminare Aslan Maskhadov, il leader indipendentista ceceno col quale Putin si è sempre rifiutato di trattare. Una vittoria indubbia per il Cremlino che ha sempre sostenuto la linea dura nella regolazione del conflitto ceceno. Ma anche densa di incognite perché con Maskhadov scompare l’unico punto di riferimento dell’ala moderata del separatismo ceceno. Ora il leader più conosciuto rimane Shamil Basayev, l’uomo che ha organizzato i più sanguinosi attacchi terroristici di questi anni, compreso quello alla scuola di Beslan nel settembre dell’anno scorso. E il rischio è quello di una forte ripresa degli attentati.
La televisione russa ha mostrato il capo dei servizi di sicurezza Nikolaj Patrushev mentre annunciava a Putin la morte di Maskhadov. «C’è ancora molto da fare - gli ha risposto il presidente russo -, dobbiamo raddoppiare gli sforzi per proteggere la popolazione della Repubblica e di tutta la Russia contro i banditi». Un possibile accenno al rischio di una forte risposta terroristica.
Precedentemente la tv aveva fatto vedere il cadavere di Maskhadov, steso per terra su un pavimento intriso d’acqua e di sangue. Non è ancora del tutto chiaro cosa sia avvenuto nel villaggio di Tolstoj-Yurt, a nord della capitale cecena Grozny. Secondo un portavoce del comando russo, la chiave sarebbe stata la cattura un paio di giorni fa di un gruppo di guerriglieri che programmava un attentato proprio a Tolstoj-Yurt. Da loro sarebbe giunta l’indicazione sul nascondiglio del presidente ceceno (destituito da Mosca dopo il 1999). «Così abbiamo organizzato un’operazione speciale», ha spiegato il portavoce. Maskhadov, che era ricercato da mesi e sul cui capo pendeva una taglia di dieci milioni di dollari, sarebbe stato individuato in un bunker sotto una casa del villaggio. I russi dicono che avrebbero voluto catturarlo vivo.
Secondo la versione assai curiosa fornita dalla milizia cecena fedele a Mosca, Maskhadov sarebbe stato ucciso per errore da una delle sue guardie del corpo.
Nel ‘96 Maskhadov aveva negoziato la pace con Mosca e si era insediato come presidente eletto dal popolo. Sotto la sua guida, però, la Repubblica aveva preso una deriva sempre più criminale e terroristica: traffici di ogni genere, migliaia di rapimenti e uccisioni nei territori confinanti. Maskhadov non controllava i capi guerriglieri che facevano il bello e il cattivo tempo. Nel ‘99, dopo un attacco terroristico contro il vicino Daghestan, la nuova guerra e la sconfessione di Maskhadov da parte di Mosca. Da allora le sue profferte di pace non sono state prese in considerazione. Il Cremlino non lo considerava più un interlocutore credibile ma uno strumento nelle mani dei signori del terrore.
Fabrizio Dragosei
BEREZOVSKIJ «Era l’unico uomo che poteva negoziare con Putin per la pace»
Non controllava del tutto la situazione, ma era il solo punto di riferimento politico. Ora ci sarà un’escalation del terrore
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
MOSCA - Era stato lui a negoziare la pace proprio con Maskhadov nel 1996. Dopo la prima guerra cecena, Boris Berezovskij, l’oligarca più vicino alla famiglia Eltsin, aveva ripreso i suoi vecchi contatti con i ceceni. Assieme al generale Lebed aveva raggiunto l’intesa. Ma tre anni dopo, con l’arrivo di Putin, era ricominciata la guerra.
Berezovskij aveva rotto con il nuovo inquilino del Cremlino ed era fuggito all’estero. Oggi, da Londra dove ha ottenuto asilo politico, commenta la morte di Maskhadov.
Allora cosa succede adesso in Cecenia?
«Non ho dubbi. Questo è certamente un colpo contro la possibilità di raggiungere una qualche pace. Ci sarà un’escalation del terrore nella repubblica. Maskhadov era un elemento frenante».
Il Cremlino era convinto che Maskhadov non fosse in grado di tenere a freno i signori del terrore, i capi dei gruppi di fuoco potenti e autonomi come Shamil Basayev.
«E’ un errore. E’ vero che Maskhadov non controllasse completamente la situazione, ma è anche vero che lui era l’unico punto di riferimento politico per tutti gli indipendentisti. Vivo lui non si parlava di vari centri di potere. C’era Maskhadov e basta».
La sua eliminazione è un successo di Putin?
«No, è un’altra sconfitta per Putin. La verità è che quelli che vengono presentati come successi di Putin sono sconfitte per la Russia».
Maskhadov voleva veramente la pace con la Russia?
«Non a caso un paio di giorni fa aveva detto che se Putin lo avesse incontrato avrebbero raggiunto un accordo nel giro di mezz’ora. Eliminando lui si è eliminato l’unico percorso possibile verso la pace».
«I nostri incontri a Grozny interrotti dalle bombe»
Aslan Maskhadov, presidente ceceno eletto sotto controllo internazionale, è morto. Assassinato. Il piano delle autorità russe è riuscito: d’ora in poi dovranno confrontarsi soltanto con Shamil Basayev, leader estremista da loro plasmato e da loro a più riprese risparmiato, da Budinnovsk al Daghestan. Putin, l’agente segreto che trascorre le vacanze in compagnia di Schröder e Berlusconi, si trova di fronte un suo simile, un terrorista che non ha ancora la sua tempra, già la sua crudeltà. Il massacro continuerà e gli attentati riprenderanno.
Aslan Maskhadov aveva appena proclamato un cessate il fuoco unilaterale e dichiarato di voler rappresentare i valori dell’Occidente, non quelli dell’Islam radicale. Aveva dato prova della sua forza. Era giunto il momento di ucciderlo. Per impedire che quello spirito di «rivoluzione permanente» che terrorizza il nostro amico zar conquistasse il Caucaso settentrionale.
Nessun politico occidentale ha osato invitare il Cremlino a negoziare con il solo leader legittimo di un popolo di martiri ed eroi. Pensate al comandante Massud in Afghanistan. Dopo aver resistito ai russi e agli islamici, è stato abbandonato e ucciso, a beneficio di Bin Laden. Nessuno dei nostri rappresentanti si è opposto a Vladimir Putin, nel momento in cui ha assimilato la resistenza militare degli indipendentisti ceceni al terrorismo internazionale. Al contrario, Chirac e Schröder hanno proclamato il maestro del Cremlino arcangelo della pace. Era un assegno in bianco e l’allievo del Kgb l’ha usato.
Privi di qualsiasi morale, i nostri dirigenti manifestano una notevole imbecillità politica. Quale leader potrà ora placare queste migliaia di torturati che non sognano altro che la vendetta? Chi sarà in grado di negoziare, appena i russi si saranno resi conto della follia sanguinaria che le agita? Come trovare in questa giovane generazione che non ha conosciuto altro che guerra e oppressione, un uomo della statura di Maskhadov? La Cecenia sprofonderà nell’orrore, più di quanto non abbia fatto finora.
Yasser Arafat morendo ha avuto diritto a tutti gli onori tributatigli da Francia ed Europa. Il presidente ceceno, che non ha mai invocato massacri di civili, morirà come ha combattuto, da solo. Abbandonato da tutti, isolato sulle sue montagne ribelli, Maskhadov non ha esitato a condannare la presa d’ostaggi del teatro di Mosca e l’orrore di Beslan. Esattamente come aveva fatto con gli attentati dell’11 settembre.
Eroe indipendentista, ha proposto un piano di pace anti-terrorista che rinviava la questione dell’Indipendenza. In nome della pace. Il piano prevedeva la smilitarizzazione di tutti i combattenti sotto controllo internazionale. Eppure Onu, Ue, Osce, Nato, non si sono degnati di discutere un piano vecchio di tre anni e continuamente riproposto.
Malgrado le operazioni di pulizia, gli stupri, i saccheggi, lo sterminio di un quarto della popolazione (come se in Italia o in Francia fossero stati eliminati tra i 10 e i 15 milioni di individui), malgrado i suoi esuli terrorizzati, la Cecenia resiste, alla barbarie dei russi e alle sirene del fanatismo religioso.
Perché tanto accanimento contro una popolazione di un milione di persone (un tempo)? Perché negarle compassione? L’ostinazione di Mosca non deriva da considerazioni strategiche, né da meri interessi energetici. La principale ragione di tre secoli di guerra coloniale e crudeltà in Caucaso è di natura pedagogica, i grandi poeti russi l’avevano capito. Si tratta di dare un esempio, spiegare ai russi a cosa va incontro chi non rispetta gli ukaze (editti imperiali, ndr). Nel 1818, il generale Ermolov svelava a Nicola I l’essenza di questa lotta: «Con il suo esempio, il popolo ceceno instilla uno spirito di ribellione e d’amore per la libertà anche nei soggetti più devoti a Vostra Maestà». Putin ha tradotto nel suo gergo da sottufficiale sovietico la lezione dell’imperialismo zarista: vanno «inseguiti fin nelle latrine», questi eterni ribelli.
Sì, Aslan Maskhadov aveva le mani sporche di sangue, come i resistenti di Francia e d’ogni dove. Combatteva un nemico armato e ispirato da pulsioni assassine. Ai giorni nostri, non è una bella vita, quella dei veri resistenti.
Aslan Maskhadov è morto anche per le nostre incapacità lessicali. Evochiamo il termine genocidio appena possiamo, mai in presenza di un genocidio vero, come in Ruanda nel 1994. Conferiamo la qualifica di «resistenti» ai salafiti o ai saddamisti che sgozzano gli agenti elettorali e i cittadini iracheni. Ci rifiutiamo, però, di applicare la stessa qualifica ai combattenti per la libertà che non si rassegnano all’estinzione del loro popolo. Rifiutando di vederlo per quel che era, presidente e patriota, i leader occidentali hanno permesso l’assassinio di Maskhadov.
Gli piacevo. Nel corso delle mie peregrinazioni in Cecenia (giugno 2000) non siamo riusciti a discutere, ben tre volte i nostri incontri sono stati interrotti dalle bombe. Gli ho trasmesso le mie domande, mi ha risposto in cassetta con una lunga lettera, nella quale denunciava l’islamismo e concludeva: «In una Cecenia libera, nessuna donna sarà mai costretta a portare il velo».
Al termine del suo ultimo racconto «Hadji Murat», Tolstoj dipinge, in forma di testamento letterario e politico, una scena allucinata: recapitata su un piatto a un ignavo zar, la testa mozzata di un nobile capo ceceno. Aslan Maskhadov è morto ieri nel villaggio di Tolstoj Iourt.
La Cecenia ha perso il suo de Gaulle.
Noi abbiamo perso, ancora una volta, il nostro onore.
DIECI ANNI NEL MIRINO Dall’Armata rossa all’Islam Il moderato nemico di tutti
Per Aslan Maskhadov incontrare dei giornalisti era complesso quanto un’offensiva militare. Nel 1999 la «pace» negoziata dal generale Alexandr Lebed per conto del presidente russo Boris Eltsin era già caduta. I russi stavano per riconquistare Tolstoy-Yurt, dove ieri Maskhadov sarebbe stato ucciso, e i reporter dovevano essere «scambiati» sulla linea del fronte da qualche ceceno d’Inguscezia sulla base di garanzie d’onore familiare. Il presidente eletto due anni prima in modo democratico (lo certificarono osservatori indipendenti), si impegnava a difendere loro, come se stesso, sia dalle bombe russe sia dai tagliatori di teste fondamentalisti. Già allora il leader della Cecenia ribelle era «un morto che cammina», sopravvissuto ad una mezza dozzina di attentati. A ieri se ne contavano ufficialmente più di venti. Maskhadov era obiettivo di Mosca perché capo dei separatisti e obiettivo di salafiti e wahabiti, l’anima islamica dell’indipendentismo, perché laico. Ogni dubbio sulla sua morte è giustificato proprio dal gran numero di chi voleva eliminarlo. Nel ‘99 la lunghezza della sua barba dipendeva dal tempo trascorso quella mattina allo specchio. Dopo aver perso Grozny per la seconda volta (febbraio 2000), la barba divenne invece una dichiarazione di fede. Fino a una dozzina di anni fa, Maskhadov, ex ufficiale d’artiglieria dell’Armata Rossa, non sapeva recitare neppure una sura del Corano. Fu la rincorsa ai finanziamenti dell’«internazionale islamica» e al favore dei mujaheddin combattenti a costringerlo ad atteggiarsi a musulmano e a farsi crescere almeno una barba corta e ben curata. Una barba «trasversale» alla Hamid Karzai.
Nel ‘98, per prendere le distanze dal caos senza legge che dilagava nella sua Cecenia, Maskhadov parlò di «infiltrazione di arabi wahabiti». A Gudermess (uno dei santuari montani della guerriglia) fece sterminare un gruppo fondamentalista. E l’anno seguente fu il terrorista Ibn Al-Khattab (giordano e affiliato ad Al Qaeda proprio come l’uomo nero dell’Iraq di oggi Al Zarkawi) a firmare un agguato ai suoi danni. Al-Khattab fu ucciso dai russi tre anni dopo e il ruolo di referente dell’estremismo islamico passò al ceceno Shamil Basayev.
Dalla morte del giordano, secondo Mosca, Basayev e Maskhadov si erano fusi in un unico mostro bifronte. Il presidente recitava da «moderato». La sua «voce» in occidente era Akhmed Zakayev, ex combattente rivestito in giacca e cravatta e pronto a denunciare in conferenza stampa gli abusi russi. Il sempre più barbuto Basayev, invece, si caricava sulle spalle il biasimo russo e occidentale per le stragi (dall’ospedale di Budinnovsk alla scuola di Beslan), ma allo stesso tempo intascava i miliardi dell’integralismo islamico. Che poi divideva con Maskhadov.
«Il comandante Shamil Basayev sarà processato alla fine della guerra per l’eccidio di Beslan», ha dichiarato pochi mesi fa il «presidente moderato». Non ci sarà la controprova sulla sua buona o cattiva fede. E’ comunque un fatto che mai Maskhadov ebbe la forza o la volontà di distanziarsi nei fatti dalle azioni terroristiche, dai sequestri, dai sanguinosi blitz dei signori della guerra cecena. I suoi ministri, quando ancora c’era un governo separatista, erano liberi di minacciare i russi: «Insegneremo loro che cosa vuol dire avere la guerra in casa». Poi arrivava Maskhadov, con il cappellino di astrakan sul capelli (ancora come Karzai), e parlava di dialogo, tregue e diritti umani violati da Mosca.
Maskhadov era nato nel ‘51 da una famiglia cecena deportata nel ‘44 da Stalin in Kazakhstan. Rientrato a Grozny, venne ammesso nel ‘71 in un’accademia militare sovietica. E alla dissoluzione dell’Urss era ormai maturo per essere tra gli ufficiali fondatori del «clan dei ceceni» dell’ex Armata Rossa. E’ l’ammutinamento. I soldati approfittano del caos al Cremlino per inseguire un’indipendenza sognata dai ceceni per secoli. Li guida Dzhokhar Dudayev che dal 1992 al ‘96 è il leader laico e incontestato della rivolta. Sulla loro scelta di allora (e sulla reazione russa) pesa la responsabilità della distruzione del Paese, la morte di centinaia di migliaia di persone e l’innesco di un altro focolaio di fondamentalismo islamico.
Il commento del quotidiano «Izvestija» all’uccisione di Maschadov è: «Ucciso il terrorista n. 0». Alle pagine 1-3 vengono riportati l’elenco dei leader dei guerriglieri liquidati finora dai servizi segreti russi, alcuni pareri sulle conseguenze dell’eliminazione di Maschadov (rappresentanti governativi la vedono come un fattore positivo per il miglioramento della situazione e la cessazione degli atti terroristici; al contrario, esponenti di organizzazioni sociali la vedono come un ulteriore fattore di confusione e di violenza), e le dichiarazioni di Putin: «Bisogna incrementare gli sforzi per difendere gli abitanti della repubblica e i cittadini di tutta la Russia dai banditi».
L’opposizione nel paese e nell’ex Unione Sovietica
Sempre più frequenti le voci sul calo dei consensi a Putin. «Nezavisimaja gazeta», ancora in data 1 marzo, titolava in prima pagina «Siamo al minimo storico» nell’audience del presidente, rispetto agli ultimi 5 anni, sottolineando che «l’opposizione ora cercherà un leader. Anche i vecchi capi aumentano il proprio peso politico».
Il 9 marzo, a due mesi dalle solenni celebrazioni dell’anniversario della vittoria, viene reso noto che i presidenti della Lituania e dell’Estonia rifiutano di venire a Mosca in quest’occasione, al contrario del premier della Lettonia, che pure ha rilasciato durissime dichiarazioni in merito.
Il 3 marzo (lo riferisce con varie foto «Kommersant», 4 marzo, p. 4), a Mosca e a Pietroburgo si sono svolti picchetti organizzati da «Jabloko», che reclamano chiarezza e trasparenza sui fatti di Beslan (sono trascorsi 6 mesi dal massacro)
Interpretato variamente l’esito delle elezioni in Moldavia, conclusesi «senza rivoluzioni giallo-arancioni e con la vittoria del partito comunista» (rileva «Izvestija», 9 marzo, p. 1). Quest’ultimo, d’altro canto, come dichiara il presidente Voronin vuole «trasformarsi in un partito europeo di nuovo tipo». «La Russia è arrivata al traguardo con un risultato nullo, senza essere riuscita a influire radicalmente sulle votazioni; tuttavia, evitando di ripetere in modo evidente gli errori commessi in Ucraina e Abchazia – prosegue il quotidiano – è riuscita a conservare lo status quo fino alla presidenziali. Uno status quo indispensabili per ulteriori manovre geopolitiche».
Putin intanto, ha deciso di accettare l’invito di Juscenko e il 19 marzo si recherà a Kiev, nell’Ucraina attualmente in subbuglio per la morte di Kravcenko e il caso Gongadze. A proposito di questo caso, «Nezavisimaja gazeta» titola in prima pagina, il 5 marzo: «Kucma è salvo. Ucciso l’unico uomo che avrebbe potuto testimoniare sul delitto dell’ex presidente dell’Ucraina». I giorni precedenti la morte di Kravcenko, i quotidiani (cfr. Ad esempio «Izvestija» 4 marzo, p. 6), parlavano apertamente delle dirette responsabilità di Kucma e del suo governo (Kravcenko, Derkac, Litvin) per questo omicidio.
La salute del Papa
Sito «Europacristiana.it», 4 marzo
PREGHIERA A MOSCA PER IL SANTO PADRE: ANCHE IN QUESTO MOMENTO CI DIMOSTRA TUTTA LA SUA FORZA
Commozione fino alle lacrime nella cattedrale di Mosca, dove i fedeli hanno pregato per la salute del Papa. “Anche in un momento come questo, il Santo Padre ci dimostra tutta la sua forza e ci fa giungere il suo messaggio: Siate forti nella fede!” sottolinea a Fides l’Arcivescovo Kondrusiewicz - “Tutta la comunità dei fedeli raccolta per la Messa domenica scorsa nella Cattedrale della Madre di Dio a Mosca si è profondamente commossa al momento di elevare al Signore la preghiera per la salute del Santo Padre. Moltissimi fedeli addirittura piangevano, la commozione era tanta che ho dovuto più volte interrompere la mia omelia” dice all’Agenzia Fides Sua Ecc. Mons. Tadeusz Kondrusiewicz, Arcivescovo della diocesi della Madre di Dio a Mosca, che domenica scorsa ha celebrato la Santa Messa con l’intenzione specifica per la salute del Santo Padre. “Alla Messa per il Papa domenica scorsa, che è stata trasmessa in televisione, erano presenti anche i rappresentanti della stampa e della televisione russa, che sono rimasti stupiti di tanta commozione e di tanto affetto per il Papa. In questi giorni in cui il Santo Padre è in ospedale mi sono state rivolte tante richieste di interviste da molte parti, il che dimostra quanto questo Papa sia stimato da tutti”.”Immediatamente dopo il primo ricovero del Papa e anche dopo il piccolo intervento subito, ho lanciato un appello a tutte le diocesi, parrocchie, comunità e movimenti cattolici con invitando a pregare per la salute del Papa e per la sua pronta guarigione. Ho chiesto di pregare per il Papa non solo durante la Santa Messa ma anche nella preghiera individuale e nelle singole comunità”, afferma Mons. Kondrusiewicz che mette in evidenza l’interesse di tutta la società russa per la salute del Papa.”Intanto il Santo Padre, anche in un momento come questo, ci dimostra tutta la sua forza e ci fa giungere il suo messaggio: Siate forti nella fede!”, sottolinea l’Arcivescovo a Fides, assicurando anche la sua preghiera personale. “Insieme alle suore nella mia casa, tutte le sere esponiamo il Santissimo Sacramento e dedichiamo la nostra preghiera alla salute del Papa.”Anche padre Vilches SJ, messicano, della comunità dei Gesuiti a Mosca che conta 8 membri provenienti da diversi paesi (Ecuador, Kazakhstan, Russia, Ucraina, Belgio), sottolinea all’Agenzia Fides la preghiera quotidiana della sua comunità. “Preghiamo giornalmente per la salute di Papa Giovanni Paolo II nella Santa Messa e nelle nostre preghiere comunitarie. Grazie alle possibilità di informazione che ci offre internet riusciamo ad essere aggiornati sulla situazione ed a partecipare al decorso della malattia del Santo Padre”.
Kirill Privalov, I ritmi del Vaticano, «Itogi», 8 marzo, pp. 34-37
Sulla salute del Papa: aldilà delle ottimistiche assicurazioni ufficiali, sono già venduti i diritti per la trasmissione televisiva dei funerali, ma soprattutto i fatti legati alla nomina del successore. Proprio sull’interrogativo della successione è incentrato l’articolo. Studiando il passato si osserva una legge di alternanza (appunto, i «ritmi vaticani») tra papi diplomatici, carismatici, amministratori ecc., e inoltre generalmente il «favorito» in conclave non è mai eletto. Giovanni Paolo II rientra nella categoria dei «carismatici» e «popolani», e quindi ci sarebbe da aspettarsi un «aristocratico»; tuttavia l’attuale pontefice ha già preparato il terreno affinché il successore continui nelle riforme, e magari non sia europeo. Segue una dettagliata descrizione dei processi elettivi in conclave, con tutti gli elementi curiosi del caso, e un resoconto del conclave nel corso del quale venne eletto papa Wojtyla. Da ultimo, si fanno i nomi di possibili «papabili», tra cui Maradiago (capo della Conferenza latinoamericana), Re, Pulic di Sarajevo, e un africano, Francio Arinse.