Il pacifismo cieco uccide la rinascita di Baghdad
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Secondo "AsiaNews", oggi Baghdad ha bisogno dei soldati, per terminare il processo di cambiamento in atto. Padre Cervelliera, riconosce di NON essere stato favorevole alla guerra, in quanto preoccupato per la sorte del popolo irakeno, ma è la stessa preoccupazione per quel popolo, che ora gli fa dire che i soldati Non se ne devono andare.
IRAQ: Salviamo la rinascita di Baghdad dal pacifismo europeo cieco
Il 20 marzo è l'anniversario della Seconda Guerra del Golfo, l'operazione che ha portato alla caduta di Saddam Hussein. Nel tentare di fare il bilancio di un anno, le immagini si accavallano: i bombardamenti notturni e diurni, le vittime civili, il ministro dell'informazione che mentiva, il castello di carte della Guardia Rivoluzionaria volato via con un soffio; la statua di Saddam che resiste a cadere; la cattura del dittatore e la sua bocca ispezionata come un antro vuoto; la lunga serie di attacchi terroristi; gli attentati all'Onu, alla Croce Rossa, ai carabinieri di Nassiriya.
In Italia e nel mondo si discute ancora se l'invasione dell'Iraq è stata una "guerra giusta", se si deve ancora finanziare la presenza di truppe italiane in Iraq (proprio mentre altri stati stanno decidendo di entrarvi).
Quel che fa male a noi missionari dell'Asia, è vedere che in Italia il dibattito sull'Iraq non è dettato da amore al popolo irakeno, ma da semplici interessi di bottega politica, che usano del problema Iraq per cercare di mettere in minoranza l'avversario.
È la stessa cosa a livello mondiale, dove l'ideologia anti-americana fa criticare, per partito preso, tutto quello che Bush, l'America, i marines fanno.
Non eravamo favorevoli alla guerra. Non per pacifismo cieco: quando in Italia vi era la valanga delle manifestazioni per la pace (ma in realtà anti-Bush e anti-Berlusconi), noi eravamo preoccupati per il popolo irakeno. E ancora oggi, per lo stesso motivo, cioè il presente e il futuro del popolo irakeno, dobbiamo ammettere che quella guerra e la presenza della Coalizione in Iraq sta facendo bene al paese. Un'inchiesta della BBC in Iraq (che pubblicheremo fra breve su AsiaNews) dice che almeno il 70% degli irakeni pensano che le cose stanno andando meglio ora che in passato; e il 56% dice che sta meglio ora che prima della guerra.
Sulle pagine e nel sito di AsiaNews abbiamo registrato in questi mesi la rinascita economica dell'Iraq, prostrato da anni di malgoverno e di embargo. In molti luoghi del paese vi sono problemi con l'elettricità e con l'acqua. Ma non si può negare che il mercato sta crescendo. Se il telefono a Baghdad spesso non funziona, vi sono però telefonini in ogni dove; i negozi sono pieni di beni mai visti o mai permessi sotto il regime di Saddam, come le antenne satellitari. Anche i salari stanno crescendo. Un maestro di scuola adesso guadagna 50 dollari al mese, invece dei 3 dollari di prima della guerra; un dottore ne prende 300, al posto dei 4 dollari di una volta.
Anche la Chiesa è più libera di esprimersi, di muoversi, di criticare, di esigere diritti. Il ritorno delle scuole libere - cristiane e musulmane - segna la fine di una dittatura che teneva tutti in pugno.
Sono apparsi decine e decine di giornali che finalmente parlano di tutto, anche della politica, perché liberi dalla censura. La gente critica anche gli americani perché non ha più paura di essere torturata o uccisa. Perfino le manifestazioni di protesta sono un segno di novità in un paese che per più di 20 anni è stato strozzato in un pugno di ferro che nessuno denunciava.
Al momento in cui scriviamo è stata appena firmata la bozza di costituzione che dovrebbe integrare democrazia e tradizioni tribali; ispirazione all'islam (religione della stragrande maggioranza degli irakeni) e laicità; unità del paese e federalismo. Il fatto che nel dibattito sulla nuova costituzione le donne e i cristiani abbiano combattuto per vedere riconosciuti i loro diritti è già un segno che i diritti dell'uomo e delle donne, la libertà di religione possono abitare anche in ambiente musulmano.
Certo, vi sono ancora attacchi terroristi: soldati stranieri uccisi, ma soprattutto civili. Ma chi pensa di coronare come "resistenti" quelli che muovono le file del terrorismo, dovrebbe dirlo al prof. Raied Jewad, studioso a Cambridge, che ritornando in Iraq alcuni mesi fa, dopo 23 anni di esilio, ha avuto i parenti uccisi in un ristorante "Questa non è resistenza - dice in un rapporto. Chiamarla così è un insulto al popolo irakeno. Come può un popolo 'resistere' all'occupazione uccidendo la propria gente e facendo scoppiare bombe lungo la strada, vicino alle moschee, distruggendo personale dell'Onu, della Croce Rossa? Una vera resistenza del popolo irakeno non sarebbe condotta in questo modo così patetico e codardo".
La presenza della Coalizione sta facendo bene anche al Medio Oriente. L'idea di portare la democrazia nel mondo arabo sta guadagnando punti in una regione che conosce solo dittature personali o di famiglia, che nascondono dietro la posa islamica una barbarie contro l'uomo e la libertà. In Arabia Saudita le pressioni sul sistema di governo sono ormai innumerevoli. Persino le donne chiedono con insistenza i loro diritti. In Iran, anche se i conservatori hanno vinto le elezioni, non vi è mai stata una sfida così aperta al potere degli ayatollah. Negli emirati arabi si torna a parlare di libertà di religione e di parlamento. In Siria 1000 intellettuali chiedono le riforme politiche e - caso unico nella dittatura degli Assad - non vengono arrestati. Perfino il conflitto israelo-palestinese ha trovato dei paladini (Yossi Beilin, ex Ministro di Giustizia israeliano e Yasser Abed Rabu, politico palestinese, autori di una bozza di trattato di pace) che sono più ascoltati - e credibili - dello stesso Sharon e Arafat.
Dal Medio Oriente e dall'Iraq in particolare viene la richiesta di lavorare per un mondo dove i diritti umani siano rispettati e messi al posto d'onore nel rapporto con le nazioni. E questo proprio mentre l'Europa sembra dire addio a ogni criterio ideale, per vivere - o sopravvivere - di commerci e ideologie pacifiste a fiato corto.