A che ora e dove in piazza per Clementina?
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Ve ne sarete certamente accorti, nessuna emozione, nessun titolo in prima pagina, non ci sono candele alle finestre, né fiaccolate in piazza, non ci sono cortei né bandiere della pace a sventolare per Clementina Cantoni.
Sarà che l’organizzazione per cui lavora non è abbastanza importante? Non è schierata politicamente dalla parte giusta? Sarà che non aveva un sito su cui parlava male degli Americani e inneggiava al ritiro delle truppe in Iraq?
Su Il Foglio del 20 maggio, Toni Capuozzo ci racconta la vicenda di Clementina e degli altri dimenticati, perché non è la vita degli uomini e delle donne che molti vogliono difendere, ma la vita di certi uomini e di certe donne. E’ doloroso, ma è così, io non me lo spiego in altro modo.
Nessuno scende in piazza per lei
Toni Capuozzo
Hanno rimediato. Accanto a quelle di Florence Aubenas e Hussein, i due del cui sequestro in Irak si è perso il conto dei giorni, verrà posta, in Campidoglio, la gigantografia di Clementina Cantoni. Ma è un rimedio ispirato alla correttezza politica che rischia di sottolineare ancora di più, com’era già avvenuto per la giornalista francese e il suo interprete-traduttore, il silenzio, la passività, l’oblio, l’amnesia. Interrogati al proposito – a che ora e dove in piazza per Clementina? – leader ed esponenti della sinistra ammettono, spiegano, ricorrono a sensazioni primaverili: stanchezza, distrazione, sentimenti incerti come il disincanto e l’assuefazione. Tutto questo silenzio, quest’assenza di indignazione, di commozione, di impegno ha per noi un solo nome: doppia morale. E’ vero. Anche i quattro vigilantes italiani vennero sequestrati di primavera, e la loro sorte non commosse e non fece fremere. Ma è sconcertante vedere che ora non si ritiene urgente mobilitare tutto l’apparato di idee, di bandiere, di emozioni e di persone che si mobilitò per le due Simona e per Giuliana Sgrena. Perché?
Mattias Mainiero se lo è chiesto ieri su “Libero”, e conclude: “Si sfilava per la pace e in realtà si inneggiava ai fatti propri”. Le manifestazioni pacifiste come tappa per le regionali?
C’è del vero, naturalmente. Come c’è del vero nella sottolineatura della dichiarazione, al “Corsera”, di Gabriele Polo sulla fortuna della Sgrena – “Aveva una bella e importante famiglia alle spalle, la nostra, la famiglia del “Manifesto”. Ebbene, siamo pronti ad adottare anche Clementina” – dove è evidente lo spirito di parrocchia, il senso di appartenenza o quello di estraneità, sia pure generosamente pronta a ravvedersi.
Ecco, il senso di appartenenza è un’altra buona spiegazione. Clementina, che pure ritroviamo nelle vecchie interviste mossa dalle più nobili intenzioni, appartiene a un’organizzazione inglese che non usa sfilare nelle manifestazioni, che non siede ai tavoli della pace. Chi sia lei, Clementina, in realtà, che natura avesse il progetto a cui lavorava – assistenza alle vedove afgane – interessa poco: non è dei nostri, e il “nostro” non viene stabilito in base a quello che uno è e uno fa, ma in base a come si colloca, a come ammicca. Un esempio piuttosto clamoroso di questo approccio alle persone e ai fatti si verificò proprio in Afghanistan: riflettori e ammirazione per Gino Strada, che sulla vicenda aveva una esplicita posizione politica, perfino preponderante sull’aspetto umanitario del suo impegno, e toni dimessi per Alberto Cairo, il volontario che aveva il torto di fare il suo lavoro ma che, pur esprimendo giudizi personali fortissimi, era troppo minimalista, apparentemente impolitico, poco proclamatorio e accusatorio.
Ora che non si scomodino i leader e le segreterie, può essere: il cinismo è parte nobile della politica. Ma che non si scomodino i singoli, i gruppi della società civile, questo è triste. Ma non è nuovo. Ci è già capitato di ricordare la vicenda di Moreno Locatelli, il pacifista andato a morire sul ponte di Vrbanja, a Sarajevo. O la fine ancor più limpida e atroce di Guido Puletti e dei suoi amici sulla strada di Bosnia, mentre si recavano a distribuire medicinali. L’emozione intermittente del movimento pacifista non li ha intercettati, sono rimasti fuori dall’albo dolente della storia di parte, come del resto le figure del volontariato di ispirazione religiosa, che neppure il pacifismo aclista, comboniano o altro sembra ricordare. E la stessa cosa vale per l’informazione: la vicenda tragica di Ilaria Alpi – al cui ricordo ci lega il rispetto per le figure per i genitori e il nome di Miran Hrovatin – ha assunto attorno a sé, per le valenze politiche italiane di un’inchiesta senza fine, un carattere simbolico totalitario, fatto di premi e film. Ciò che non toglie nulla alla luminosità delle vittime, ma non può far registrare il silenzio intorno a tante altre storie e percorsi umani non spendibili, nella lotta politica italiana: chi si ricorda il nome di Palmisano? Chi ricorda, se non i suoi amici, il caso di Antonio Russo? Questo strabismo, logico nei politici ma scandaloso nelle anime belle, indecente nei giovani che vogliono cambiare il mondo, si ripete nel libro nero delle memorie: in ogni dibattito c’è qualcuno che ricorda che Saddam fu coccolato dagli USA in funzione anti-ayatollah, ma i morti della televisione di Stato di Belgrado, vittime non collaterali e innocenti di un bombardamento di un’alleanza di cui facciamo parte non li ricorda neppure il sindacato di quest’Italia da cui decollarono gli aerei, ma che era governata da D’Alema. E l’Italia che si arrovella sui posti di blocco americani, si appassiona al processo Ocalàn, il cui destino in qualche modo abbiamo contribuito a scrivere? E’ una morale Cencelli, punteggiata di “se” e di “ma”.