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Col senno di poi - 1

Fonte:
CulturaCattolica.it

Vorrei sottoporre alla vostra attenzione alcuni interventi che quando furono pronunciati lasciarono molto perplessi e suscitarono critiche a volte furenti sia tra i laici che tra i cattolici.
A volte, rileggere queste cose con il “senno di poi” se non risolve i problemi, può aiutarci a trovare altre vie per affrontarli.

Le dichiarazioni di Monsignor Giacomo Biffi, Cardinale di Bologna (Libero, 14 settembre 2000).

“... Le sfide che già ci sovrastano sono principalmente due: il crescente afflusso di genti che vengono a noi da Paesi lontani e diversi; il diffondersi di una cultura non cristiana tra popolazioni cristiane. Ne trattiamo distintamente nella forma più chiara e succinta possibile. Dobbiamo riconoscere che il fenomeno di una massiccia immigrazione ci ha colto di sorpresa. È stato colto di sorpresa lo Stato, che dà tuttora l’impressione di smarrimento e pare non abbia ancora recuperata la capacità di gestire razionalmente la situazione, riconducendola entro le regole irrinunciabili e gli ambiti propri di un’ordinata convivenza civile. E sono state colte di sorpresa anche le comunità cristiane, ammirevoli in molti casi nel prodigarsi ad alleviare disagi e pene, ma sprovviste finora di una visione non astratta, non settoriale, abbastanza concorde. Le generiche esaltazioni della solidarietà e del primato della carità evangelica - che in sé e in linea di principio sono legittime, anzi doverose - si dimostrano piuttosto bene intenzionate, che utili quando si confrontano davvero con la complessità del problema e la ruvidezza della realtà effettuale. Deve essere ben chiaro che non è di per sé compito della Chiesa come tale risolvere il problema sociale che la storia di volta in volta ci presenta. Le nostre comunità e i nostri fedeli non devono perciò nutrire complessi di colpa a causa delle emergenze imperiose che essi con loro forze non riescono ad affrontare. Sarebbe un implicito, ma comunque grave e intollerabile ‘integralismo’ il credere che le aggregazioni ecclesiali possano essere responsabilizzate di tutto. Compito nostro inderogabile è invece l’annuncio del Vangelo e l’osservanza del comando dell’amore. Dovere statuario della Chiesa, e in essa di ogni battezzato, è di far conoscere a tutti esplicitamente Gesù di Nazareth, il Figlio di Dio morto per noi e risorto, oggi vivo e Signore dell’Universo, unico Salvatore dell’umanità intera. Tale missione può essere efficacemente coadiuvata, ma non può essere in alcun modo surrogata da qualsivoglia attività assistenziale. Essa suppone la nostra attitudine al dialogo sincero, aperto, rispettoso di tutti, ma non può mai risolversi nel solo dialogo. Può essere favorita dalla nostra conoscenza oggettiva delle posizioni altrui, ma si avvera soltanto quando noi riusciamo a portare all’esplicita conoscenza di Cristo quei nostri fratelli, che sventuratamente ancora non ne sono beneficiati. Non bisogna poi dimenticare che l’azione evangelizzatrice è di sua natura universale e non tollera deliberate esclusioni di destinatari: “Predicate il Vangelo ad ogni creatura “ (Cfr. Mc. 16,15), ci ha detto il Risorto. E non è mai giustificata una rassegnata rinuncia a questo proposito, nemmeno quando, umanamente parlando, sembri poco prevedibile il conseguimento di qualche risultato positivo: chi crede nella forza sovrumana dello Spirito santo, non desiste mai dall’annunciare la strada della salvezza. È molto importante infine che tutti i cattolici si rendano conto di questa loro indeclinabile responsabilità, che essi hanno nei confronti di tutti i nuovi arrivati (musulmani compresi). Per essere però buoni evangelizzatori essi devono crescere sempre più nella gioiosa intelligenza degli immensi tesori di verità, di sapienza, di consolante speranza che hanno la fortuna di possedere: è una effusione di luce divina, assolutamente inconfrontabile con pur preziosi barlumi offerti dalle varie religioni e dall’Islam: e noi siamo chiamati a renderne partecipi appassionatamente e instancabilmente tutti i figli di Adamo. Senza dubbio dovere nostro è anche l’esercizio della carità fraterna. Di fronte a un uomo in difficoltà - quale sia la sua razza, la sua cultura, la sua religione, la legalità della sua presenza - i discepoli di Gesù hanno l’obbligo di amarlo operosamente e di aiutarlo a misura delle loro concrete possibilità. Di questa responsabilità noi siamo tenuti a rendere conto al Signore; ma solo a lui, e a nessun altro. Nel variegato panorama dell’immigrazione, le comunità cristiane non possono valutare attentamente i singoli e i diversi gruppi, in modo da assumere poi realisticamente gli atteggiamenti più pertinenti e opportuni. Agli immigrati cattolici - quale che sia la loro lingua e il coloro dello loro pelle - bisogna far sentire nella maniera più efficace che all’interno della Chiesa non ci sono ‘stranieri’: essi a pieno titolo entrano a far parte della nostra famiglia di credenti e vanno accolti con schietto spirito di fraternità. Quando sono presenti in numero rilevante e in aggregazioni consistenti, andranno sinceramente incoraggiati a conservare la loro tipica tradizione cattolica, che sarà oggetto di affettuosa attenzione da parte di tutti. Ai cristiani delle Chiese Orientali, che non sono ancora nella piena comunione con la sede di Pietro, esprimeremo simpatia e rispetto. E, in conformità agli accordi generali e secondo l’opportunità, potremo favorirli anche all’uso di qualche nostra chiesa per le celebrazioni. Gli appartenenti alle religioni non cristiane vanno amati, aiutati nelle loro necessità. Non va però in nessun modo disatteso quanto è detto nella nota CEI del 1993: “Le comunità cristiane, per evitare inutili fraintendimenti e confusioni pericolose, non devono mettere a disposizione, per incontri religiosi di fedi non cristiane, chiese, cappelle e locali riservati a culto cattolico, come pure ambienti destinati alle attività parrocchiali”. “Ero forestiero e mi avete visitato, 34”. Possiamo aggiungere un’annotazione, che riguarda da vicino soprattutto il comportamento auspicabile dello Stato e di tutte le varie autorità civili. I criteri per ammettere gli immigrati non possono essere solamente economici e previdenziali (che pure hanno il loro peso). Occorre che ci si preoccupi seriamente di salvare l’identità propria della nazione. L’Italia non è una landa deserta o semiabitata, senza storia, senza tradizioni vive e vitali, senza un’inconfondibile fisionomia culturale e spirituale, da popolare indiscriminatamente, come se non ci fosse un patrimonio tipico di umanesimo e di civiltà che non deve andare perduto. In vista di una pacifica e fruttuosa convivenza, se non di una possibile e auspicabile integrazione, le condizioni di partenza dei nuovi arrivati non sono ugualmente propizie. E le autorità civili non dovrebbero trascurare questo dato della questione. In ogni caso, occorre che chi intende risiedere stabilmente da noi sia facilitato e concretamente sollecitato a conoscere al meglio le tradizioni e l’identità della peculiare umanità della quale egli chiede di far parte. Sotto questo profilo, il caso dei musulmani va trattato con una particolare attenzione. Essi hanno un forma di alimentazione diversa (e fin qui poco male), un diverso giorno festivo, un diritto di famiglia incompatibile con il nostro, una concezione della donna lontanissima dalla nostra (fino ad ammettere e praticare la poligamia). Soprattutto hanno una visione rigorosamente integralista della vita pubblica, sicché la perfetta immedesimazione tra religione e politica fa parte della loro fede indubitabile e irrinunciabile, anche se di solito a proclamarla e farla valere aspettano prudentemente di essere diventati preponderanti. Mentre spetta a noi evangelizzare, qui è lo Stato - ogni moderno Stato occidentale - a dover fare bene i suoi conti. Da ultimo, sarà bene che nessuno ignori o dimentichi che il cattolicesimo - che non è più la religione ufficiale dello Stato - rimane nondimeno la religione storica della nazione italiana, oltre che le fonte precipua della sua identità e l’ispirazione determinante delle nostre più autentiche grandezze. Perciò è del tutto incongruo assimilarlo alle altre forme religiose o culturali, alle quali dovrà sì essere assicurata piena libertà di esistere e di operare, senza però che questo comporti o provochi un livellamento innaturale o addirittura un annichilimento dei più alti valori della nostra civiltà, va anche detto che è una singolare concezione della democrazia il far coincidere il rispetto delle minoranze con il non rispetto delle maggioranze, così si arriva di fatto all’eliminazione di ciò che è acquisito e tradizionale in una comunità umana. Si attua una intolleranza sostanziale, per esempio, quando nelle scuole si aboliscono i segni e gli usi cattolici, cari alla stragrande maggioranza, per la presenza di alcuni alunni di altre religioni”.

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