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Venezuela

Autore:
Rondoni, Davide
Fonte:
Avvenire (C) 19.10.2005
Davide Rondoni è un poeta, e i poeti si sa hanno un occhio in più con cui guardare la realtà, in questo articolo pubblicato da Avvenire ci racconta le contraddizioni di questo paese e del suo presidente che per alcuni è il demone per altri "il meno peggio".

Da Caracas Davide Rondoni – Avvenire 19.10.2005

Il Venezuela è il suo cielo. Non c’è bisogno d’esser poeti per notarlo. Ti viene addosso, grande e aperto. Caracas è la capitale di quel cielo, innanzitutto. Vasto, luminoso, varioso di nuvole e sole, di pioggia e di vento. Assicura un buon clima. Si può vivere, qui. Si vive bene a Caracas, se hai molti bolivares, le monete. O se lavori nel petrolio, che in questi anni ha quintuplicato il suo valore. Essendo, così dicono, il miglior alleato di governo del presidente Chavez. Oppure se discendi da una delle famiglie italiane che qui hanno costruito strade, palazzi e la loro fortuna. Se no è meglio che da Caracas ci passi soltanto, magari per andare a vedere la più grande caduta d’acqua del mondo, il Salto Angel, con due giorni di viaggio nella foresta, o per andare a stenderti in una delle isolette caraibiche a mezz’ora di volo da qui. A Los Roques ci arrivi con un piccolo aereo sbuffante, e atterri su una pista piena di buchi. Non è il Paradiso, ma è difficile capirlo. Ci puoi vivere tutto l’anno in canottiera, puoi stare tutto il giorno a guardare un mare che incanta e il tuffo preciso dei pellicani che scelgono tra le molte varietà di pesce. Qui si può campare con poche ore di lavoro. Dai bar costruiti in ex case di pescatori esce sempre la musica e il vociare di uomini, eccetto nelle ore più calde del giorno. E le donne che incroci ti guardano negli occhi. Ma non è il Paradiso: lo capisci alla mattina, quando si vedono alcuni uomini lenti raccogliere migliaia di lattine di birra vuote lasciate per strada. Molti turisti vengono qui. E diversi italiani hanno deciso di venir qui a vivere. Anche perché a Caracas girare per strada è pericoloso. E in quella enorme città, a parte la bellezza delle ragazze, non c’è molto da vedere. Nulla di esotico, molto di malandato. Le pubblicità dei rum in Italia mentono. Però c’è questo cielo. Grandioso. E un buon clima, con un po’ d’umido ogni tanto e qualche rapido acquazzone. Sì, a certe condizioni ci puoi vivere bene a C aracas. Ad esempio, se non sei uno di quelli che ha abbarbicato la propria casa in uno dei grandi ranchitos, come qui chiamano le favelas. Questi alveari di casupole di mattoni a vista, spesso senza tetto o finestre, si sono agglomerati intorno alla enorme farfalla della città, posata ai piedi del Monte Avila in una grande valle. La stringono nella sua conca trafficosa e rumoreggiante di sette milioni di figure. Dai ranchitos scendono in città a cercare di campare in ogni modo. Vendono di tutto per le strade. In una delle piazze principali, agli angoli in mezzo al traffico, accanto a quelli che smerciano Pepsi Cola o bottiglie d’acqua, alcuni ragazzi vendono grammofoni. Sì, grammofoni d’epoca. E sono parecchi i ragazzini che, seduti sotto i grandi alberi ai lati delle larghe vie, rivendono i cerchioni delle auto probabilmente rubati pochi giorni prima. Ai desperados venezuelani si sono aggiunti negli ultimi anni anche gli immigrati peruviani, boliviani o di altre zone ancor meno fortunate dell’America Latina. E questa immigrazione, mi dice una signora viaggiando in macchina verso la sua casa nei quartieri alti, ha portato ancora più difficoltà a trovare lavoro, costituendo un peso in più per i venezuelani. I quali però mantengono una loro strenua dignità e una specie di allegra fiducia nella vita. Il santo più popolare è Rodrigo Hernandez. Anzi, il dottor Rodrigo Hernandez, un professore e medico che si è guadagnato la fama di santo nel popolo, anche se la Chiesa non lo riconosce. Nell’olimpo dei santi venerati tra forme di animismo varie è uno dei più “normali”. L’animismo non è l’unico problema per la Chiesa. Ora ha anche quello di far riconoscere la propria libertà di nominare i propri pastori senza subire il “niet” del governo sui nomi scomodi.
Ci sono tutti i tipi di taxi a Caracas. Fare il taxista è un mezzo per campare per molti che fanno un altro mestiere. Un altro mezzo è affittare armi. O affittare ragazze.
Se vuoi vivere bene a Caracas non devi nemmen o essere un medico o un professore di scuola. Perché ti pagano male. E infatti vengono i cubani a lavorare al tuo posto. E a Castro e Chavez va bene di pensare che indottrineranno e costruiranno il nuovo Venezuela bolivariano con questi poveracci iniettati.
Sono dunque arrivati i medici cubani in quelle strade desolate e pericolose. Per pochi dollari, secondo l’accordo tra Chavez e Castro, vengono qua a curare i ranchiteros, che non avevano sanità pubblica. Questo significa, mi spiega l’elegante e sottile ambasciatore italiano, Gerardo Carante, invitando il poeta italiano a colazione, che da Cuba in parecchi sono disposti a scappare anche per un lavoro malpagato e che di medici venezuelani disposti a fare quel lavoro infame per poco non ce ne sono, perché hanno formazione e attese più alte. Caracas è grandiosa e tremenda. I murales fatti dipingere dal capopolo inneggiano alla rivoluzione continua e invitano a pagare le tasse. Una rivoluzione o una educazione popolare? Stanno cambiando il nome alle feste. Se guardi per un’oretta il canale 8 della tv di stato, il programma sportivo ti fa bere all’inizio la predica di qualche funzionario pubblico in camicia rossa intorno alle iniziative sportive del governo. E solo dopo un bel po’ ti fa vedere i goal con cui il Venezuela è stato eliminato dai gironi di qualificazione ai Mondiali di Germania 2006. Già dall’aeroporto, in questo paese il cui presidente dice di voler ripulire dal capitalismo, ti sussurrano da ogni angolo se vuoi cambiare dollari o euro in bolivares. E il baseball inventato e giocato ai massimi livelli dagli odiati gringos è lo sport nazionale. Però la salsa si balla, eccome. Rivoluzione e salsa sono forse due lati della stessa medaglia. Far sentire il popolo in movimento è il segreto per piacere al popolo. È un paese pieno di giovani. Si avverte che ci sarebbero un sacco da fare. Ma la città sembra essersi fermata, dopo esser stata costruita negli anni Cinquanta dagli italiani, anche grazie alla storia d’amore del dittatore Perez Jimenez di allora con la nostra grande attrice Silvana Pampanini (a quella passione si devono alcuni monumenti tra i più importanti). C’era la dittatura, allora. Poca democrazia, ma l’economia marciava, secondo la contraddizione tipica che ha segnato anche altri grandi paesi come il Cile. Ora Chavez sembra voler riprendere la corsa. Lo spot più diffuso in tv mostra il Venezuela come un treno in viaggio, ma in un senso diverso rispetto al boom degli anni ‘50. Chavez ripete che il nuovo Venezuela sarà “cristiano, socialista, e anticapitalista”. Molti lo accusano di scarsa democrazia. I calcolatori Olivetti che hanno conteggiato l’esito dell’ultimo referendum da cui è uscito vincitore il leader comunista, sono sotto accusa. Ma in molti dicono che Chavez non è la causa dei mali del Venezuela, semmai ne è un frutto. Ed è il meno peggio che forse poteva capitare qui, assicurano alcuni che di sicuro comunisti non sono. Tuttavia molti ragazzi non ci stanno a subire il “coprifuoco” per i minorenni imposto per motivi educativi dal governo, e non sopportano più di veder gli slogan sui giornali, sui muri e alla tv. Si ritrovano a bere nei bar alla occidentale nell’enorme centro commerciale di Sant’Ignazio, l’unico luogo della città vivace fino a sera tardi. Altri luoghi, un tempo animati dai bar e dai ristorantini che si affacciano sulla strada, sono vivamente sconsigliati dopo una certa ora di sera. Se una rivolta a Chavez ci sarà, potrà essere solo dai giovani, specie universitari. La grande università pubblica nel centro di Caracas è una zona franca. Qui non entra la polizia, non ci è mai entrata. E’ un grande campus. Anch’esso costruito negli anni 50, e ora malandato. Su questo grande prato puoi fare di tutto, mi dice Erika, giovane e brava traduttrice, indicando il grande parco che abbellisce gli spazi un po’ inquietanti del campus, brulicante di ragazzi.
E qui ci sono grandi poeti. Uno è certamente Santos Lopez. E’ un signore grande e gentil e, con la faccia india e molti bracciali. Nelle sue poesie i morti, il bosco e il cielo gli parlano, e i poveri Cristi per le strade gli parlano. E a lui, e agli altri poeti di Caracas dedico come un saluto e un omaggio i primi versi di una poesia che sta nascendo.



Caracas cielo grande a mani
aperte che virano
sul tuo volto per proteggerlo
e sul tetto del taxi rovinoso fermo
troppo tempo ad aspettare
e sulla bellezza fragile, violenta
di queste ragazze dono
della foresta e dei colori del ferro

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