Il Social Forum e la teoria dei gruppetti
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Genova, Luglio 2001. Per il movimento no global italiano la data e il luogo hanno un significato particolare. Da quel giorno, migliaia di “social forum” sono nati nelle città e nelle province del nostro paese. Non esiste alcun censimento ma, ad oggi, non più del cinquanta per cento è sopravvissuto all’entusiasmo iniziale. Riflusso, arretramento, mancanza di progettualità, elementi che hanno minato alla base l’esistenza dei medesimi. Questi soggetti collettivi hanno vissuto nella pretesa di poter svolgere un ruolo politico senza sporcarsi le mani con la politica, di essere riconosciuti come “ressemblement” sociale senza dotarsi delle caratteristiche degli attori sociali. Un ossimoro in pratica che ha svelato nel breve periodo l’impossibilità dell’utopia. “Un altro mondo possibile” è diventato purtroppo non solo uno slogan ma l’unico e vero programma di lavoro. In assenza del “come” e del “perché”, in assenza del “fine” e del “mezzo” l’unico quesito rimasto aperto è stato il classico refrain leniniano “Che fare?”. Nel periodo in cui ho frequentato il Social Forum varesino (2001-2002) ho cercato di porre ritualmente la domanda, ma la difficile e composita antropologia dei partecipanti, non ha consentito risposte soddisfacenti. In fin dei conti, l’esito era prevedibile, cattolici seguaci di Don Andrea Gallo, pseudo anarchici all’oscuro di chi fosse Bakunin e comunisti timorosi di pronunciare il termine “proletario”, non potevano certo rispondere organicamente ad una domanda tanto “costruttiva”. Così, tra assemblee che sponsorizzavano Vittorio Agnoletto e fumosi convegni sullo sfruttamento della Nike, l’unico appiglio con la realtà, riuscii a scovarlo nel forum dei migranti. Concretamente quello doveva (o poteva) essere il luogo dell’incontro e del fare. Proposi di presentare mozioni in tutti i consigli comunali del varesotto, riguardanti l’istituzione di uno sportello informativo per gli immigrati, e quella del mediatore culturale per facilitare l’inserimento dei bambini in età scolare all’interno delle scuole. Mi accusarono di politicismo e di muovermi attraverso i vecchi metodi istituzionali oramai obsoleti secondo il nuovo corso no-global. A far da contraltare alla mia proposta però, i guru del social forum, proposero un nuovo modo di agire: il gruppetto. Non più l’incontro collettivo, ma l’istituzione di piccoli gruppi di persone, con lo scopo di favorire la solidarietà e l’incontro personale. Amicizia e umanità però non si stabiliscono a tavolino, non basta, infatti, vivere nella stesso caseggiato per costruire un “popolo”. L’amicizia è incontro, avvenimento casuale, imprevisto che si fa realtà. Il gruppetto, burocraticamente concepito e concettualmente studiato è una farsa e come tale non regge alla prova della realtà. Pronunciati questi concetti, la mia posizione all’interno del social forum divenne sempre più scomoda sino a condurmi all’autoesclusione. I gruppetti ovviamente non sopravvissero, nessuna amicizia nacque tra chi già non era amico. L’amicizia è un valore troppo importante per essere indotto dall’esterno e la solidarietà (pelosa) non produce incontro, non serve a costruire un’unità, non forgia coscienza e relazioni umane. I gruppetti generarono settarismi, una falsa immagine del contesto e, nello specifico della questione “migranti”, un’idea malsana dei rapporti umani. Sono oramai lontano da quei luoghi d’incontro, tanti sono scomparsi sotto il peso dell’immobilismo e della propaganda terzomondista, altri sopravvivono essi stessi come “gruppetti”. Per carità, niente a che vedere con soggetti che incidono nella politica e sulla vita concreta. Per essere rivoluzionari ci vuole amicizia sudata, spontanea, vitale, non certo slogan e rapporti personali studiati a tavolino. Un’altra idea delle relazioni umane è possibile, certo ma fuori dai social forum.