Il Natale di Welby, in una società che non sa prendersi cura di chi soffre
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Il “caso Welby” come tutti oramai lo chiamiamo, a me sembra prima di tutto il caso di un uomo che, diventato un simbolo della battaglia radicale, ora non possa più tornare sui suoi passi.
Sul Corriere della sera parla il suo medico, quello a cui gli “amici” (mi spiace, ma io andrei cauta con questa parola) radicali, hanno chiesto la disponibilità a staccare la spina.
Si comprende leggendo, come il problema non sia l’eutanasia, ma un’altro, e come in questa inevitabile confusione, qualcuno cerchi di giocare sull’emotività degli italiani, per vincere la sua battaglia.
Il fine giustifica i mezzi?
C’è un uomo, che come spiega il suo medico, rifiuta interventi che lo aiuterebbero a soffrire meno, a morire in tre o quattro giorni senza soffrire, ma lui rifiuta, vuole essere addormentato e che sia staccato il respiratore.
Chi gli sta intorno, chi lo consiglia, chi l’ha strumentalizzato al punto da farlo divenire il simbolo della “NECESSARIA EUTANASIA”, ha molte responsabilità, perché prima della “causa” viene sempre l’uomo, il suo bene e in questo caso, dalle parole del suo medico è chiaro che il bene di Welby qui è stato disatteso.
Forse Welby non sarebbe arrivato a chiedere di morire se avesse accettato di farsi sostenere non solo nella respirazione, se chi gli è vicino non ne avesse fatto l’icona dolorosa di questa battaglia.
Dal Corriere della Sera del 18 dicembre 2006, pag. 20
di Margherita De Bac
«Ho visto un uomo malato, in una stanzetta al quarto piano di una casa di periferia. Di fronte a lui solo una tv, l’unica finestra è lontana, non può guardare fuori. Al suo fianco la moglie e, per poche ore a settimana, un’assistente sociale». E’ racchiusa anche in questa desolante descrizione l’origine della sofferenza di Piergiorgio Welby. Giuseppe Casale, il medico palliativista che si è rifiutato di esaudire la richiesta di eutanasia, è convinto che con opportune cure antidolore quell’uomo potrebbe avviarsi con serenità verso il termine della vita.
Che situazione ha visto?
«Una persona molto sofferente non nel fisico, ma nella psiche e nello spirito. Un dolore intimo, profondo, tipico di chi non riesce a dare più senso alla vita. E rabbia”.
E non ritiene che abbia diritto ad essere rispettato?
«Sono contrario all’eutanasia, se così non fosse non avrei scelto di dedicarmi alle cure palliative. E’ la risposta sbagliata di una società che non sa prendersi cura di chi soffre».
Welby sa che esistono alternative?
«Certo, gli ho proposto di assisterlo a casa con farmaci, e sostegno psicologico e spirituale oppure con ansiolitici e antidepressivi. Non ha accettato. Infine gli ho prospettato una sedazione non per accelerare la morte ma per smettere di soffrire. Gli ho assicurato che gli sarei stato vicino quando se ne sarebbe andato naturalmente, dopo pochi giorni. Ma lui vuole essere addormentato e subito staccato dal respiratore».
Cosa la amareggia di più?
«Che un caso straziante sia stato strumentalizzato per fini politici. Chi porta avanti la battaglia per l’eutanasia e usa Welby per aprire una breccia dimentica che dietro tutto questo c’è la solitudine e il dolore di un essere umano. Quella sentenza non è una mia vittoria».