Addio Welby, anzi, arrivederci
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Affidiamo a Dio Piergiorgio Welby, nessuno giudichi il suo dolore e la sua disperazione.
Ho letto che dal suo letto non poteva nemmeno dare uno sguardo fuori da una finestra e spesso ho pensato a lui, a chi gli portava il mondo in quella stanza, ho letto anche, che non avrebbe voluto essere attaccato ad un respiratore, eppure, “quell’aggeggio” a cui sua moglie Mina non si era sentita di opporsi, gli ha permesso dal 1997 ad oggi, di continuare a vivere, a portare avanti le sue battaglie, sino alla richiesta presentata al presidente della Repubblica Napolitano di essere aiutato a morire o ucciso.
Chi lo sa, se fossimo riusciti ad aiutarlo ad amare la vita, anche la sua vita, preziosa, proprio perché difficile e dolorosa, ci raccontano solo le storie di chi vuole morire, ma ci sono tante storie di chi sceglie di vivere la sua vita sino in fondo, questo non dobbiamo mai scordarlo, e non dovevano scordarlo coloro che si definiscono i suoi amici, che lo hanno chiamato “valoroso combattente”, ma che non hanno avuto remore nell’usare la sua morte per i loro scopi ideologici.
Leggo su un quotidiano:
In conferenza stampa, alla Camera, i radicali hanno spiegato i dettagli della morte assistita. E hanno rivendicato come è morto Welby.
Welby è morto perché «non voleva sentire ragioni. Diceva: “Si deve fare” - racconta Pannella -. Nell’ultimo abbraccio gli ho detto: “Hai visto, tu pensavi che scherzassimo”. E invece nessuno scherzo».
Ho trovato questa descrizione agghiacciante, inumana, non basta presentarsi in conferenza stampa con la faccia contrita, “nessuno scherzo”, la vita è una cosa seria e soprattutto non è nostra, uno Stato che stabilisca per legge che il diritto a farsi uccidere, è uno Stato fatto da uomini sconfitti, che non sanno stare di fronte alla vita, che non sanno trovare soluzioni per rendere la morte meno dolorosa, per sostenere chi soffre e chi sta loro accanto.