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Se la parola eutanasia si affaccia in famiglia

Fonte:
CulturaCattolica.it

Un mio amico ha scritto al giornale Avvenire, per offrire uno spunto di riflessione sul tema dell’eutanasia.
Voglio condividere con voi questa testimonianza, perché appare evidente come dietro all’eutanasia, ci sia non tanto il rispetto del diritti del malato, ma molto spesso un problema più vasto che gli uomini cercano di risolvere in quello che a loro pare “il migliore dei modi”.
Le famiglie fanno pochi figli, i genitori anziani e malati si trovano a pesare sulle spalle spesso già cariche delle giovani famiglie, viviamo in una società dove l’efficienza fisica è un mito e non vi è onore nell’essere dipendenti da altri, non c’è vanto nell’essere i depositari della storia di famiglia, dell’esperienza, del sapere.
Che fare? Perché disperdere energie e denaro nell’aiutare le famiglie a sostenere queste situazioni, nel valorizzare anche economicamente quelle persone che si fanno carico della cura degli anziani, nella civiltà dell’usa e getta, dove non si ricicla più il gomitolo di lana, stiamo finendo per convincerci che anche l’umanità ha una scadenza, quella in cui, temendo di essere di peso si implora la fine, magari per sentirsi smentire da chi sta loro intorno.

Caro Direttore,
vorrei condividere con tutti i lettori di Avvenire e con lei una esperienza che sto vivendo in questi ultimi tempi e che mi ha dato occasione di riflettere sull’eutanasia e sulla malattia in generale. Io vivo nella stessa casa in cui vivono i miei nonni (86 anni lui e 80 lei, sposati da quasi 56 anni), che da sempre si spendono senza misurare tempo e fatica per la tenuta della casa, per il figlio e per i nipoti. Raramente ho visto i miei nonni, ed in particolare mia nonna, prendersi dei momenti di riposo tutti per loro. Nonostante il loro lento declino fisico, non hanno mai smesso di lavorare e rendersi utili. La situazione è radicalmente cambiata a partire dai primi di gennaio, quando mia nonna, in seguito ad un episodio di ischemia cerebrale, è stata costretta a letto, bisognosa di assistenza tutto il giorno. Dopo due mesi di ricovero in cui ci si è alternati nella sua assistenza, la situazione non ha subito grandi miglioramenti e, se le sue braccia hanno riacquistato una certa mobilità, il morale è a terra. Con grande dispiacere di tutti (a partire dal mio rude nonno che non smette di piangere, fino a me) mia nonna continua a sostenere di voler morire. In quel dialetto brianzolo tanto semplice e schietto ci dice sempre: «Signur, Signur... fam guarì, u fam murì» - e alle nostre repliche sincere, la sua è sempre: «Cosa sto qui a fare? A darvi fastidio?». Io non mi permetto di giudicare mia nonna, ma la ritengo in parte prigioniera del suo eccezionale zelo domestico e in parte vittima inconsapevole della mortifera cultura efficientista moderna. Non vedendosi più in grado di sostenere il benché minimo impegno domestico, si considera una donna inutile e dunque finita. Mia nonna è lucida, capace di sé e sostiene di voler morire. È immobilizzata in un letto e non ha concrete speranze di rimettersi in piedi. Se in Italia ci fosse l’eutanasia, potrebbe legalmente domandare di morire, e un “pietoso” medico potrebbe mettere fine ai suoi giorni, contro l’amore dei parenti, per il supremo principio dell’autodeterminazione dell’individuo. Tocco con mano l’abisso verso il quale la cultura moderna sta festosamente precipitandosi: quanti anziani potrebbero trovarsi nelle condizioni di mia nonna? La sola risposta che gli allegri saltimbanchi da obitorio sono in grado di dare è una fredda legge sull’eutanasia; la risposta nascosta nel cuore di ogni malato è l’inestimabile valore della vita anche quando si diventa “inutili”! Ringrazio di tutto cuore la Chiesa per le parole di vita che diffonde tutti i giorni (dal Papa, all’ultimo prete di parrocchia), per tutte le energie che spende per promuovere una visione umana della vita e della malattia. Direttore, non arretriamo di un centimetro nella difesa della vita!
Luciano Checchinato

Le sue parole, caro Checchinato, già contengono la risposta: l’unico argine all’incombere dell’eutanasia è l’amore. Non quello melenso e friabile trasbordato dalle soap opera nelle chiacchiere dei talk show, ma il sentimento forte che intesse tenacemente l’esistenza di chi consapevolmente si sceglie per la vita ed edifica una famiglia come quella di cui lei è parte. Quell’amore che fa piangere ininterrottamente il suo «rude» nonno. Il nostro compito è far sì che la consapevolezza di questo valore fermenti e torni ad essere cultura, mentalità sempre più diffusa e condivisa.
Di fronte alla situazione che lei descrive non pretendo certo di sostituirmi a voi, né tanto meno vorrei apparire presuntuoso, ma se un argomento può far breccia nella determinazione di sua nonna, mi pare che questo possa essere la domanda di come si comporterebbe se nelle sue condizioni ci fosse il suo sposo e fosse lui a chiederle di finirla presto. Dalle sue parole non ho dubbi che non esiterebbe un istante a scartare con orrore l’idea di affrettare la fine del suo sposo. Non conosco la vostra famiglia, ma non credo affatto che sua nonna sia sfiorata dal miti dell’efficientismo. Ritengo invece che si esplichi anche nella condizione odierna l’istinto a concepirsi in vita per uno scopo, per dedicarsi agli altri, innanzitutto ai suoi familiari. Per cui l’inabilità la frustra, a meno che non si riesca a recuperare il motivo per cui fino a ieri lavorava alacremente, ossia il fare la volontà di Dio nella sua situazione. Quella volontà di Dio che ora lei vorrebbe forzare (o guarire o morire) ma che invece va accolta - e adorata - per ciò che è: Dio in noi e innanzi a noi.
Ma il pensiero corre subito ai tanti anziani, in numero sempre crescente, che affrontano da soli la fase finale della vita, superstiti di un mondo in cui gli affetti si sono via via venuti diradando per la mancanza o la lontananza dei figli, la scomparsa del coniuge, gli acciacchi fisici o psichici. Sono queste le situazioni che impongono un’attenzione e una cura particolari: cultura della vita significa guardare a loro facendo concretamente loro cogliere che nessuna esistenza, con qualsiasi limitazione si presenti, rappresenta un peso da «scaricare» prima possibile. È e rimane, fino alla fine, un valore. Perché questa non resti vacua retorica bisogna però sia predisporre o adeguare la rete dei servizi sanitari e assistenziali alle esigenze che si vanno manifestando, sia alimentare nelle comunità locali, anche quelle ecclesiali, attenzione e sensibilità che sappiano intercettare e accostare le situazioni di solitudine, difficoltà, disagio, così da far percepire con la concretezza della prossimità umana il valore di ogni vita. Un impresa non da poco, certamente, ma non ci si può accontentare di alcunché di meno.

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