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Mobilitazione generale per padre Giancarlo Bossi

Fonte:
CulturaCattolica.it

Non vorremmo trovarci tra qualche mese a leggere necrologi o a vedere servizi televisivi che ci raccontano quant’è dura la vita dei missionari ‘ad vitam’ e come spesso la loro vita sia in balia degli eventi.
Padre Giancarlo Bossi missionario del PIME nelle Filippine, è stato rapito il 10 giugno scorso.
Da allora la sua vicenda pare dimenticata dai media.
Per questo ci uniamo all’appello lanciato da AVVENIRE che chiede a tutti di mobilitarci per la liberazione di Padre Bossi.

Chiediamo una mobilitazione generale - Giulio Albanese - Avvenire.

Sono trascorsi venti giorni da quando padre Giancarlo Bossi è stato rapito da sconosciuti in un remoto villaggio nelle Filippine meridionali. Da allora, il sacerdote del Pontificio istituto missioni estere (Pime) è praticamente scomparso nel nulla. Una vicenda poco chiara che sta sempre più assumendo i contorni di un vero giallo. Ed è per questa ragione che i suoi confratelli, impegnati nell'apostolato in quel Paese dell'Estremo Oriente, sono usciti senza indugio allo scoperto. In segno di solidarietà, hanno diramato un appello rivolto a cristiani e musulmani affinché insieme collaborino per infrangere il muro di omertà che avvolge questo sequestro, ridando l'agognata libertà al missionario lombardo di cui si sono perse le tracce dal 10 giugno scorso.
La convinzione espressa dai missionari del Pime è che nelle Filippine «parecchia gente ed organizzazioni conoscano la verità». E allora, parafrasando il libro della Genesi, denunciano l'atteggiamento di Caino che interrogato dal Signore sulla sorte del proprio fratello Abele rispose senza esitazione: «Non lo so. Sono forse il guardiano di mio fratello?» (Gen 4,9). In effetti, dal giorno del rapimento, sono circolate notizie, voci e smentite di varia natura, addirittura legate a ipotetiche trattative con i sequestratori, ma che alla prova dei fatti si sono rivelate "bolle di sapone", quasi vi fosse una sorta di occulto interesse a procrastinare nel tempo questo calvario. Sta di fatto che finora non sono state fornite prove attendibili che il missionario sia ancora in vita e ciò naturalmente acuisce lo sconforto di tutti coloro che si stanno prodigando per la sua liberazione.
Insomma, la sensazione è che qualcuno sappia davvero come stanno le cose e non voglia parlare. Non v'è dubbio che il comunicato firmato dai missionari del Pime sia sintomatico del malessere che si respira in un Paese, le Filippine, dove già nel passato i missionari hanno pagato un prezzo altissimo, in termini di sequestri e addirittura c on la vita. Come dimenticare ad esempio il sacrificio di padre Tullio Favalli del Pime ucciso a Tulunan l'11 aprile del 1985? Per non parlare del sequestro di un altro suo confratello, padre Luciano Benedetti, che nel 1998 trascorse ben 68 giorni in prigionia. È bene rammentare che d'allora fino ai nostri giorni nelle Filippine meridionali ben sei sacerdoti hanno subito il sequestro, dei quali tre sono stati brutalmente uccisi.
Ma tornando alla vicenda di padre Bossi, mentre scriviamo, proprio perché non è chiaro cosa sia effettivamente avvenuto - se si tratti cioè di un'azione compiuta a scopo d'estorsione o con intenti anticristiani da gruppi estremisti, di matrice islamica - è importante tenere alta la guardia. Il che significa che tutti, ma davvero tutti, sia in Italia sia nelle Filippine, hanno il sacrosanto dovere di collaborare perché il missionario possa tornare a riabbracciare i propri cari. Padre Bossi è un nostro connazionale, proprio come sono italiani personaggi, tanto per citarne alcuni, del calibro di Daniele Mastrogiacomo, Giuliana Sgrena o le due Simone. Dunque, è importante che sia le autorità politiche sia coloro che operano nel mondo dell'informazione si adoperino alacremente nei rispettivi ambiti di competenza.
La speranza cristiana ci spinge a credere che padre Bossi sia ancora vivo e la sua testimonianza, in questi drammatici giorni di segregazione dal resto del mondo, è parte integrante di quella chiamata vocazionale a cui aderì divenendo missionario «ad vitam». Se ci sono storie che davvero non dovrebbero essere censurate sui media nostrani sono proprio quelle di uomini come lui.

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