"Io uccido", per legge si può fare, ma non cambiamo nome al gesto
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La polemica va avanti da anni, ma è un'ottima opportunità per tutti, per fermarci a riflettere e capire se certe leggi ci hanno resi migliori o solamente più duri di cuore.
Una lettrice scrive e il direttore risponde.
Mi fa piacere che leggiate anche voi questa corrispondenza, perché la lettrice dice ciò che tante volte abbiamo sentito dire, la sua non è un'opinione isolata, ma un modo comune di vedere l'aborto, di pensare a quel figlio come ad un estraneo, sino a quando diceva una giovane deputata "non lo prendi in braccio".
Poi a volte lo prendi in braccio e continui a sentirlo estraneo.
Al direttore - Non irrido. Ma non aderisco alla campagna per la moratoria sull’aborto. Una donna che decida di interrompere il percorso che la porta a dare la vita – e a mio avviso, lo dico non sentendomi per questo nichilista, si tratta di potenza di vita, della cui “innocenza” è improprio parlare, perché questa innocenza non viene a essere finché quella vita non si fa “altra” dal corpo della madre, ma diciamo pure che è una potenza di vita innocente: questo non conta, se non come aggravante di responsabilità per chi considera l’aborto un crimine – questa donna, dunque, decide, è vero, sia per sé sia per qualcun altro, ma è un qualcun altro che è ancora una parte di sé. Nella pancia di tua madre “sei” tua madre e tua madre “è” te, la madre sente di non essere più una ma allo stesso tempo non è ancora due, ed è in questa dialettica tra unità e dualità che prende forma la decisione di abortire, decisione sempre drammatica, e quasi sempre molto pensata. La maggior parte delle donne che abortisce non lo fa con leggerezza, e ne sopporta per sempre il peso psicologico. La maggior parte delle donne non abortisce perché dice a se stessa: “Voglio decidere il momento giusto dopo aver fatto carriera”, magari fosse tutto così semplice e così bianco-nero. Non può essere accostata, questa donna, a uno stato che dà la morte a un essere che è “altro” dalla madre che l’ha messo al mondo – e che il condannato sia un assassino o un innocente non conta ai fini del “no” alla pena di morte. L’aborto non è una pena inflitta da un tribunale, non è un atto criminoso contro un innocente senza avvocati, il feto “è” la donna che lo porta in sé, la madre è avvocato di se stessa e di quella vita in potenza, buono o cattivo avvocato lo dirà a se stessa nel corso della sua esistenza, e l’aborto è pena nel senso di decisione dolorosa e incancellabile dalla psiche, di amputazione che agisce su due esseri non disgiunti e non scindibili. La madre non uccide, decide di non essere due. Il motivo per cui lo fa, che sia dettato da irresponsabilità, da rifiuto del frutto di una violenza, da consapevolezza dei propri limiti, da responsabilità, appartiene al suo dolore, al suo amore, al suo discernimento, alla sua forza, alla sua debolezza. La riflessione sulla vita, sulla morte e sul dare la vita si impone nel corso dell’esistenza di ognuno di noi, donna o uomo, spesso all’improvviso: magari è troppo presto, magari è troppo tardi. Ognuno conosce il prezzo delle proprie riflessioni e delle proprie scelte. Non è onnipotenza l’atto di abortire. E’ impossibilità, in quel momento, di farsi due. Si può dire a una donna che sta per abortire: fermati a pensare. Non le si può dire: fermati perché quello che stai facendo è uccidere.
Marianna Rizzini
Risposta del Direttore
Balle, Marianna. Mi spiace, ma sono balle. Frutto di una pretesa assurda, tutto ciò contro cui vale la pena di combattere: fare della libertà secolarista, dell’autonomia del soggetto, una religione mortifera. Sii laica, se non hai altri criteri. Io ho deciso di mancare di rispetto all’aborto. Fermati a pensare? No: non uccidere. Puoi farlo e nessuno tranne la tua coscienza ti può giudicare, ma la cosa sarà nominata con il suo nome. Anche in una struttura pubblica, dove hai diritto di essere riparata, ma dove la cultura del tuo tempo non ha diritto di ingannarti.