Web 2.0. In attesa del Papa
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Scrivo a caldo, dopo la prima giornata di «Testimoni Digitali». Mons. Crociata ha evocato il compito che aspetta la Chiesa italiana, e tutti gli operatori della comunicazione. Ha così concluso: «In sintesi: un linguaggio credente ed un progetto organico per le comunicazioni sociali sono “il compito per casa” sul quale applicarsi fin dal nostro ritorno; sono le condizioni per elaborare una strategia comunicativa missionaria, che sia capace di coinvolgere tutti gli ambiti pastorali e di incidere sulla cultura della società. Sarà la sfida del decennio che inauguriamo, non a caso incentrato sull’educazione».
Eravamo in tanti, da tutte le parti d’Italia, con alle spalle varie esperienze. Sul sito del Convegno si afferma che i siti cattolici sono oramai quasi 14 mila: se ad essere presente in internet con un proprio sito sembra di essere una goccia nel mare, anche però il paragone con la quantità solo di siti cattolici dà l’impressione di essere un piccolo frammento. Che cosa darà allora ad ogni esperienza quel valore di cattolicità che è l’unico senso ragionevole di una comunicazione che abbia valore e significato? Questa considerazione apre la strada alla necessaria riflessione su ciò che rende cattolico un sito. Certo non può essere una sorta di «bollino» o «marchio di qualità» che qualche autorità competente possa rilasciare, data la natura «effimera» e continuamente modificabile di tale mezzo di comunicazione.
E non può essere solo la sua natura «istituzionale», (ovvia, per definizione, ma che non costituisce certo una chiave per la presenza in questo strano e magmatico mondo di internet).
Credo che questa rimanga come domanda sempre presente e che abbia come linea di risposta quella del soggetto che comunica in internet, e quello quindi della sua appartenenza ecclesiale. Ma anche chiami in gioco, per la natura stessa di internet, tutti coloro che sono gli «utenti» (e qui al Convegno abbiamo visto alcune caratteristiche che ne fanno dei soggetti particolari, interattivi…) e che possono in qualche modo riconoscere la cattolicità appunto del sito, contribuendo a mantenerla tale.
Ho detto che siamo in tanti: si udrà la nostra voce nel mondo (quante volte ci siamo ricordati che non possiamo essere «autoreferenziali»), capace di contrastare la guerra che oramai a tanti livelli il mondo della comunicazione ha scatenato contro la Chiesa e il Papa? In un passato recente la presenza cattolica in internet ha contribuito alla vittoria nel referendum sulla legge 40, e il lavoro coordinato di tanti siti ha ottenuto di più di quanto la carta stampata pensava di ottenere. È già finita questa era?
Credo che l’essere cattolici, oltre che ad una chiarezza dottrinale, miri a fare di noi dei costruttori della Chiesa nel mondo, attraverso lo strumento digitale. Certo mi aspetto da questo convegno una indicazione di possibili piste di lavoro, capaci di valorizzare l’esistente, senza schematismi, e creando una rete reale e virtuale di rapporti.
Mi rimane in mente una domanda: è vero che il mondo di internet ha una sua logica, delle sue regole, un suo linguaggio, e che per essere presenti bisogna conoscerlo, con competenza e creatività. Ma forse noi, con la nostra storia e con le caratteristiche peculiari che possediamo possiamo anche creare un modo specifico di presenza. Come nel mondo della educazione abbiamo elaborato – proprio a partire dalla esperienza – un metodo educativo originale (basti pensare a Don Bosco, e ora ai vari movimenti ecclesiali) penso che non bisogna rinunciare a dare l’avvio ad esperienze che creino uno specifico modo di comunicare. Non è stato Giovanni Paolo II, che ci ha ricordato che «una fede che non diventa cultura è una fede non pienamente accolta, non interamente pensata, non fedelmente vissuta» (discorso al Congresso nazionale del M.E.I.C., 16 gennaio 1982)? E cultura vuol dire anche linguaggio, non al traino della cultura altrui, ma libero e creativo. Come è accaduto nelle epoche in cui la fede era esperienza viva. Bisogna forse fare nostro il suggerimento di McIntyre, a proposito di San Benedetto: «È sempre rischioso tracciare paralleli troppo precisi fra un periodo storico e un altro, e fra i più fuorvianti di tali paralleli vi sono quelli che sono stati tracciati fra la nostra epoca in Europa e nel Nordamerica e l’epoca in cui l’impero romano declinava verso i secoli oscuri. Tuttavia certi parallelismi esistono. Un punto di svolta decisivo in quella storia più antica si ebbe quando uomini e donne di buona volontà si distolsero dal compito di puntellare l’imperium romano e smisero di identificare la continuazione della civiltà e della comunità morale con la conservazione di tale imperium. Il compito che invece si prefissero (spesso senza rendersi conto pienamente di ciò che stavano facendo) fu la costruzione di nuove forme di comunità entro cui la vita morale potesse essere sostenuta, in modo che sia la civiltà sia la morale avessero la possibilità di sopravvivere all’epoca incipiente di barbarie e oscurità. Se la mia interpretazione della nostra situazione morale è esatta, dovremmo concludere che da qualche tempo anche noi abbiamo raggiunto questo punto di svolta. Ciò che conta, in questa fase, è la costruzione di forme locali di comunità al cui interno la civiltà e la vita morale e intellettuale possano essere conservate attraverso i nuovi secoli oscuri che già incombono su di noi. E se la tradizione delle virtù è stata in grado di sopravvivere agli orrori dell’ultima età oscura, non siamo del tutto privi di fondamenti per la speranza. Questa volta, però, i barbari non aspettano al di là delle frontiere: ci hanno governato per parecchio tempo. Ed è la nostra consapevolezza di questo fatto a costituire parte delle nostre difficoltà. Stiamo aspettando: non Godot, ma un altro San Benedetto, senza dubbio molto diverso».