La ultima cima (titolo esp.)
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Per me che amo andare in montagna fin da piccolo e che ho usato tutti i modi per arrivarci, scalando su roccia, ghiaccio o neve o scendendo veloce in parapendio, l’articolo su Avvenire dei primi di giugno, mi aveva non poco incuriosito. Nel mio immaginario, mi aspettavo una bella storia, sì di scalate e certo, anche se finita tragicamente (in alta quota il pericolo si respira sempre nell’aria, e chi ha questa passione lo tiene in conto e si allena) quel prete lì, del film, doveva certo essere un tipo interessante, sicuro.
Quando vidi alcuni giorni dopo, la possibilità di partecipare all’anteprima, per di più a inviti, in Arcivescovado a Milano, ci misi poco a telefonare per prenotare i posti, per me, mia moglie e mio papà. Non sapevo però niente di più, oltre il fatto che il film, di un regista sconosciuto: Manuel Cotelo, di Valencia, in Spagna stava avendo un successo strano, quasi controcorrente, perché non basato sulle martellanti campagne (alla Avatar) che spendono cifre da capogiro e ti fanno sentire un verme se non vai a vedere questo o quel polpettone pieno di effetti, ora anche in 3D.
Eccomi quindi nel cortile, appena litigato con mia moglie, capendo all’ultimo momento che si trattava di Piazza Fontana e non via Fontana e troppo orgoglioso per ammettere di aver preso un granchio, io che giro il mondo per foto e video, seguendo Vip dalla vita sempre più improbabile. Non voglio ammetterlo, ma sto invecchiando, 48 anni compiuti, cinque giorni fa. E poi accipicchia, ma nel cortile sono quasi tutti preti, suore o anziani, - che allegria -, di giovani o coppie sposate non se ne vedono veramente tanti. Ma cavoli, neppure io sono poi, ormai, uno sbarbato.
Ecco Cotelo, il regista, - però, simpatico e intelligente -; ma con il caldo di questi giorni perfino una strabella come Angelina Jolie, sul set di un suo film, non ti impedirebbe di annoiarti, se l’afa ti toglie il fiato.
Ma finalmente inizia il video: - che razza di sigla hanno pensato gli autori? -
Non è il film di montagna che ti aspetti: nei disegni animati in B/N, che scorron sulla musica tesa, forte, un chiodo trafigge una mano, poi un altra martellata e il sangue, sotto gli occhi di un bimbo che piange; un piede e un altro, vengon bucati dal terzo ferro. Disegni dal tratto crudo, di una croce moderna, sulla quale un prete (il clergyman lo tradisce) viene innalzato in mezzo alla folla urlante, ai flash, alle camere delle tv, assetate di immagini brutali, nel consenso totale dei più, che abbassano il pollice verso, in segno di “Crucifige, crucifige…”.
In pochi secondi ho dimenticato l’afa e il diverbio con Sara, sto lì, incollato allo schermo: - non è il solito filmone inventato, che dopo un’ora non sai neppure cosa hai visto: qui lo spagnolo sta giocando duro… - eccolo che riappare in video.
Dice: “Gli esperti me l’hanno detto, se in pubblico, vado a crocifiggere un prete, facilmente vado a procurarmi importanti premi della critica, ma se per caso vado a parlar bene di un sacerdote, allora sono io ad essere CROCIFISSO! Questo è un problema, perché ho conosciuto un sacerdote bravissimo e mi piacerebbe raccontare di lui.” Elenca tutto ciò che Don Pablo (la storia è la sua) non era, tutte quelle cose che sempre interessano i media (di solito di male in peggio): “…perché Pablo era niente di più e niente di meno che un buon prete!”
E l’immagine ora è su Don Pablo Dominguez classe ’66, in conferenza pochi giorni prima della morte: un prete dalla faccia allegra, quasi sfacciata, che parla della ragionevolezza della fede, della bellezza che la fa scoprire, della dittatura della falsa ragione, e ancora il regista spiega, stupito dalla brillante baldanza del professore di teologia, che incalza: “Per credere in Dio bisogna usare la Testa!” Possibile?
E’ scandaloso per molti, ma quella sera Don Pablo disse a Juan Manuel Cotelo: “Se ti serve aiuto a comprendere, chiamami” con gentilezza difficile e rara da incontrare. Ma pochi giorni dopo, la notizia terribile, su tutti i TG di Spagna, il prete amico e una ragazza appassionata di scalate, erano morti entrambi in discesa dal Moncayo, 2300 metri di ghiaccio e roccia, bellezza struggente di un picco che fa paura e attira: “la ultima cima”, con quella il prete teologo e filosofo aveva colmato il primato delle vette mancanti e conquistato il Paradiso.
Che mistero incredibile: solo qualche giorno prima, sia il prete che la ragazza avevano detto ad altri che gli sarebbe piaciuto morire in montagna, e solo il giorno prima della salita, Don Pablo era stato ricevuto, in privato, da papa Benedetto XVI a Roma, per parlare di cosa? Possibile che tutta questa vita, così interessante e piena, dovesse finire in modo assurdo su quella maledetta, impervia eppure amata montagna? Il film è il tentativo di risposta a questa e alla domanda della vita di ognuno: “Perche?”
Non so, a questo punto, che abbia messo, il regista, negli effetti speciali (sarebbe un mago) ma goccioloni mi son piano piano spuntati dagli occhi, mi son girato per prendere la mano di Sara, quella domanda a cui mi spingeva Manuel, sempre più pressante, era la mia, la nostra. Non posso descrivervi a parole le immagini di un film che, partendo dalla perdita tragica di un bravo prete, incontrato e poi morto; dalla bellezza di una montagna apparentemente assassina, parte per raccontare la vita breve, ma incredibile di un giovane uomo morto a 42 anni, al cui funerale c’erano decine di vescovi e tremila persone, e di cui nessuno piange veramente la scomparsa, perché ne sente, misteriosamente la presenza potente, invisibile, amorosa, come se fosse più vivo adesso, come se quell’ultima cima gli avesse fatto fare un balzo, in pace, nella vita eterna dell’amore di Dio.
Bisogna vederlo questo video, anche se fai fatica a non essere libero di staccare l’attenzione, perché ogni scena è un racconto nuovo, è un modo di guardare, diverso; è una pugnalata, a volte uno schiaffo, ma ti appartiene, ci sei dentro, ci sono dentro intero e mi vergogno, perchè ti fa domandare: - come si può essere uomini così, senza niente di più estraneo, vicino a tutto e tutti, anche se non sono un prete, un buon prete?
Un prete che aveva la passione per l’uomo reale che aveva accanto, che non diceva mai di no a nessuno e incontrava l’umanità di tutti, perché Qualcuno, Cristo aveva incontrata la sua. Tanto che non diceva mai “Yo” ma sempre TU, viveva la sua vita con le famiglie, con gli amici preti, con i bambini, come se quella Vita non fosse la sua, ma di un Altro, scherzando, allegro, senza prendersi sul serio ma prendendo sul serio tutto e tutti gli incontri. Raccontano di lui però, il regista Cotelo lo conferma, (era il suo segreto): che era un drogato, uno che ricorreva al doping. Quel prete istruito che parlava facile, per farsi comprendere da tutti, che abbracciava un povero anche se era pieno di pulci, aveva una debolezza, un qualcosa che lo teneva in piedi e che lo sosteneva nei momenti no.
Il suo segreto? Un pezzo di pane, alzato verso il cielo - Questo è il mio corpo - e offerto anche davanti alle vette scalate, tutte le volte che poteva, sulle cime conquistate e amate, e un goccio di vino - Questo è il mio sangue, fate questo in Memoria di me! - Forse è questa droga, che Pablo spacciava, che attira in questo film, l’unica che lascia liberi di essere se stessi e non obbliga nessuno a fingere, quella amorevole unità che vedevano in lui i bambini, gli amici preti depressi, le coppie in crisi o appesantite da dubbi, gli studenti incuriositi da un prete che sembrava “figo”, ma non si conformava alle mode.
Le interviste, i volti, belli e normali della gente di Madrid, degli amici di Pablo, del fratello, del padre di questo prete, in un ritmo incalzante di domande, di fatti, di vicende e racconti che hanno anche dell’incredibile mi hanno spinto a conoscere l’autore e a provare ad aiutarlo nel suo lavoro di divulgazione, perché se lo merita, è bravo e perché questo film è un po’ anche mio, di tutti quelli che han bisogno di amici veri, di preti così che offrono se stessi per far intravedere Dio fatto carne e sangue, in questo mondo, in un uomo che sul legno infame della croce ha abbracciato tutti, e nell’amicizia dei suoi continua ad abbracciarlo nella storia, nella vita e nella morte anche dei suoi preti.
Grandioso e impressionante - ce l’ho ancora stampato nella memoria -, lo sguardo del sacerdote spagnolo, la cui foto Pablo teneva nello studio; che pochi attimi prima della sua fucilazione, ad opera dei rivoluzionari, guardava oltre la morte, oltre i carnefici, a quella “porta” da oltrepassare per condividere la compagnia eterna di Dio, superata quel-la ultima Cima - alla quale Dominguez sorrideva, particola in mano, come in un’orazione fisica, di tutto il corpo, la vista e l’anima, in mezzo a quel candore di ghiacci e splendore di rocce, ormai familiare alle Persone di Cristo e il Padre.
Pablo Dominguez Prieto nacque a MADRID, in Spagna il 3/7/1966.
Venne ordinato sacerdote a 24 anni.
Dottore in filosofia e in Teologia, ha pubblicato 7 libri (l’ultimo “Hasta la cumbre”, it. “Fino alla sommità”, che sta avendo un grande riscontro editoriale), decine di articoli, tenuto più di 50 conferenze.
L’ultima, dodici giorni prima di morire, fu la causa di questo documentario.
Dicono di lui che era simpatico e divertente, anche nelle situazioni più difficili. Non era capace di parlare seriamente dicendo “YO” (Io), era un bell’uomo che piaceva alle donne, ma se le vedeva troppo coinvolte trovava il modo di depistare. Non aveva paura in egual misura né della vita né della morte. Dicevano anche che era innamorato di Dio e che contagiava gli altri nello stesso amore. Che era gentile con tutti, anche con quelli che lo offendevano per strada, con i quali scherzava diventandogli amico. Era inoltre un bravo ed esperto alpinista: scalò tutte le cime spagnole sopra i 2000 metri e quelle delle Alpi sopra i 4000, altre ancora maggiori in America e Asia. Se poteva, celebrava sempre la S. Messa in cima, dopo averla scalata.
Sacerdoti, monaci e gente comune, gli chiedevano spesso di predicare ad esercizi spirituali, in tutto il mondo, e lui non sapeva rifiutare. Questo successe anche in un convento cistercense a Tulebras (Navarra) nel febbraio del 2009. Lì parlò della morte con allegria, senza tristezza. Poi si recò subito a scalare il Moncayo (2300 m.) l’ultima cima spagnola che mancava al suo attivo. Le ultime parole che disse alla sua famiglia, per telefono, prima di iniziare la discesa con l’amica scalatrice Sara, e prima di morire, furono: “Sono arrivato alla cima”.
Dal sito di LA ULTIMA CIMA (commenti di chi ha visto il film, centinaia, 4 presi a caso)
Antonio
Gracias a Dios por darnos a los sacerdotes y gracias a vosotros hermanos sacerdotes por daros a nosotros. Seguiré rezando todos los dias por vuestra santidad y porque sigas viviendo vuestra vida de sacerdotes como una vocación.
Bernabé Ruiz Sáenz
Tuve depresión de 5 años, quería morirme, me alcoholicé. Me internaron. Empecé ha hablar con EL, gracias a El salí de aquello. Hoy hace casi 13 años y sigo “seco”, gracias al P. Emilio Martinez ocd, mi fe sigue viva y cada vez más firme.
Matilde
Ramón, mi párroco, es excepcional. Siempre activo, siempre dispuesto a ayudar, a escuchar, a acompañar. Le da igual que sea a una viejecita,a un alcohólico o a un drogradicto. No para.Y siempre sonríe, aunque su salud no es demasiado fuerte
María C
Sacerdote, amigo Julio, eres todo humanidad y muy especial te estaré eternamente agradecida por tu ayuda, comprensión y por saber entender mi dolor. Mil gracias compañero, serás siempre digno de alavar por tú gran bondad, te admiro Julio.