Chiamati per nome
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Si parlava del XXX canto del Purgatorio, quando Beatrice incontra Dante nel paradiso terrestre e per la prima e unica volta lo chiama per nome: “Dante”.
Abbiamo discusso in classe sul senso di questo avvenimento. Ci siamo chiesti: quando ognuno di noi per la prima volta è stato chiamato per nome? E’ accaduto il giorno del battesimo: “Franco, Giulia, Laura io ti battezzo nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo”. Quel “Nel nome del Padre…” significa che in quell’istante io sono diventato un uomo nuovo, non più schiavo della precarietà, della limitatezza, della morte, conseguenza del peccato originale, della ribellione a Dio, del mancato riconoscimento delle mia dipendenza dal Mistero, della mia presunzione di autonomia. In quel momento non ero cosciente di quel che mi accadeva, lo erano i genitori, il padrino, e gli amici che hanno detto in coro: “Vogliamo per Franco il battesimo”, poi mi hanno donato la veste bianca e hanno acceso alcune candele, segni di questa nuova nascita alla verità e alla bellezza del mio destino. Questo è il senso del mio nome. Diventato grande i genitori, il padrino e gli amici mi hanno aiutato a prendere coscienza di quel che era accaduto, cioè del fatto che quel nome era segno, anticipazione e promessa del mio destino infinito. Poi c’è stata la giovinezza con tutte le sue circostanze: le distrazioni, le delusioni, gli errori, l’attrazione delle cose futili, effimere, false e di conseguenza la perdita del senso del nome.
Finché accade per ognuno l’incontro con “una Beatrice”, una persona umanamente grande, vera, affascinante che ripropone il senso di quel nome: “Tu sei fatto per l’infinito, per il Mistero, il Destino fatto uomo”. La vita ridotta, immiserita, triste, distratta riprende il suo vigore, la sua vitalità, la sua forza, il suo compito, il suo significato, ritorna ad essere vita umana. L’io rinasce in un incontro. Per questo è decisivo per ognuno incontrare e riconoscere “la propria Beatrice”.
Che cosa è oggi il nome per la stragrande maggioranza della gente? Un puro dato anagrafico, giuridico che serve per stipulare un contratto, aprire il conto in banca, andare all’estero, convivere, finire sul registro del prof, chattare, qualcosa che ha un significato molto limitato o peggio non significa nulla. Il nome del proprio santo sul calendario è una semplice occasione per far festa, oppure una tradizione del passato senza alcun senso, tanto che molti non conoscono più neanche il giorno del proprio onomastico. Per questo, oggi, è ancora più decisivo l’incontro con qualcuno che ti comunica l’essenza del tuo nome, il nome come vocazione, chiamata alla santità, cioè al compimento della tua vita, di quel che il tuo cuore desidera. Questo incontro è la grazia e il tesoro dell’esistenza.
Beatrice nel canto XXX viene presentata su un carro con un velo bianco che le copre il volto, un manto verde e un vestito rosso, tre colori simbolo della fede, della speranza e della carità: le condizioni per una vita pienamente umana. La fede è l’avvenimento di un incontro, uno che ti dice: “Io sono la tua felicità”, è l’evidenza che la vita è una promessa, è la certezza che quel che il tuo cuore suggerisce esiste e si compie grazie a una realtà storica, presente, all’avvenimento di un uomo, Gesù di Nazareth, un fatto accaduto e che continua a riaccadere nella storia attraverso le persone che hanno fede, come Beatrice. E’ accaduto a Dante, può accadere a te! Ma quel fatto, quell’Uomo non basta riconoscerlo, bisogna amarlo, bisogna rispondere alla domanda “Mi ami tu?” come ha risposto Pietro: “Sì Signore, Tu sai che ti amo”, cioè il Tuo amore, il Tuo perdono è così grande che mi commuove, mi colpisce e io non posso dire altro che ti amo. La carità è l’evidenza di un rapporto, di un Tu che mi prende e mi ama così come sono, gratuitamente e il mio io è continuamente sostenuto, realizzato, fatto consistere dal quel Tu: “Io sono Tu che mi fai”.
Infine c’è la speranza. Ho chiesto alle mie alunne cosa fosse la speranza e per aiutarle a rispondere ho detto loro di pensare all’esperienza dell’innamoramento, dell’incontro con la persona amata. Hanno risposto che la speranza è il desiderio che quel rapporto duri nel futuro, che non venga meno, non finisca. Ho detto che mi sembrava quello che il don Gius definisce con il verbo “Sperem! ”, speriamo che tutto vada a finir bene, una vaga speranza in un futuro che non si conosce e resta enigmatico. L’idea di speranza di Dante è molto diversa da quella della mentalità odierna, nel canto XXV del Paradiso la definisce: “Un attender certo de la gloria futura”. La speranza è l’attesa certa che quel che è cominciato nel presente, quel che ho visto nel presente si compirà nel futuro e per questo compimento io impegno tutta me stessa, gioco la mia libertà e responsabilità.
Rispondendo a una mia alunna dicevo che senza la fede, la speranza e la carità non vale la pena iniziare un rapporto amoroso, non si può cominciare un rapporto decisivo pensando: “Proviamo, vediamo se va bene, poi decidiamo se stare insieme; comunque vada abbiamo le mani libere, il giorno in cui non ci piacesse più vivere insieme, siamo liberi di andare ognuno per la propria strada, scegliendo eventualmente un altro partner”. Amare è una decisione definitiva, per sempre, altrimenti non è vero amore, è un puro piacere, un calcolo, un uso dell’altro. Una alunna diceva che, per la sua esperienza, l’amore come tutte le cose vere richiede un sacrificio: della propria istintività, del proprio egoismo, della falsità insita in ognuno.
Infine un’altra è intervenuta, affermando: “Prof tutte cose vere quelle che abbiamo detto, facili a dirsi, ma difficili, se non impossibili, da realizzare concretamente”. Le ho risposto: “Hai perfettamente ragione: se sei solo tu e il tuo ragazzo, se è solo l’impegno del marito con la moglie l’amore vero, definitivo, per sempre è impossibile. Come dice sempre un mio amico sposato con tre figli e altri in affido, l’amore è un rapporto a tre: io, mia moglie e il Mistero presente fra noi. Solo questa Presenza riconosciuta e amata, rende possibile ciò che appare impossibile: l’attesa certa non solo del compimento dell’esperienza amorosa, ma del destino delle vita, della promessa di felicità”. A questo punto le alunne hanno espresso con entusiasmo il desiderio di incontrare questo mio amico, perché dicevano: “Prof, quanto ci ha raccontato interessa veramente la nostra vita, anzi è la questione decisiva”.