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Lorent Saleh, prigioniero e torturato per quattro anni dal chavismo: “Cercavano di annullare tutti i miei sensi”

Fonte:
www.elmundo. com - CulturaCattolica.it
Tutti in Venezuela sono vulnerabili e la loro incolumità e libertà dipendono anche da un solo Tweet, un messaggio o una mail, se critici delle bugie più sfacciate e le notizie censurate della dittatura, possono portare a vivere situazioni come questa di Lorent.
Ci sono ancora circa 400 prigionieri politici. A parte Leopoldo López, che è ai domiciliari dall’anno scorso, dopo più di tre anni nel carcere militare Ramo Verde, c’è il caso di Juan Requesens, giovane deputato dell’Assemblea Nazionale, la cui famiglia denuncia sulle reti ogni giorno, che non glielo fanno vedere da mesi.

L’unico figlio di un’umile sarta single di origine palestinese, a 20 anni è diventato un attivista per i Diritti Umani nel suo Paese, il Venezuela. Il chavismo lo ha messo in prigione e lo ha torturato per quattro anni, finché, lo scorso 12 ottobre, ha accettato di essere trasferito in Spagna. Nel 2017 è stato insignito del Premio Sacharov. Questa è la prima intervista che rilascia a un giornale da uomo libero.


Domanda.- È stato quattro anni prigioniero in Venezuela. Più della metà, in un luogo sinistramente chiamato La Tumba (tomba, ndt). Che cos’è la Tumba?
Risposta.- La Tumba è un centro di tortura. È al quinto piano sotterraneo di un palazzo del centro di Caracas chiamato Plaza Venezuela, sede del Servizio Bolivariano di Intelligenza Nazionale (Sebin,ndt) . È un laboratorio creato per l’applicazione di un tipo molto particolare di torture. Un luogo sofisticato, moderno.
D.- Moderno?
R.- Molto moderno. La gente non lo sa. Ha solo visto immagini del Helicoide, l’altro grande centro di torture del regime chavista.
D.- Un luogo sordido.
R.- L’Helicoide è ciò che è creolo, il randello, la costola rotta, la mazza. È la sequela del declino di quello che una volta è stata la quarta Repubblica venezuelana. L’edificio è vecchio e il suo interno è sordido, sì. Plaza Venezuela è diversa. L’istituzione è la stessa, ma l’estetica e i metodi sono dissimili. La Tumba è la tecnologia e la tortura psicologica. Tutto luccica. Tutto è pulito e candido. Il silenzio è assoluto; la solitudine è totale. Sembra un manicomio futurista. L’Helicoide è l’ammucchiamento, il cattivo odore, gli scarafaggi e i topi. La Tumba sono gli specchi, le telecamere, le pareti bianche. Si sente perfettamente il tanfo straniero.
D- ¿Cubano?
R.- Russo-cubano. Non è il Venezuela. Il venezuelano rompe le costole. Non ti fa uscire il sangue per indebolirti prima di un interrogatorio. Non ti espone alla tortura bianca.
D.- Che cos’è la tortura bianca?
Lorent Saleh fa una lunga pausa mentre guarda di sottecchi sua madre, che è seduta a pochi metri, vicino la finestra. Aspetta che lei abbandoni la stanza. Poi si siede su una sedia, con le mani prese dietro la schiena.
R.- Lei direbbe che mi stanno torturando?
D.- No...
R.- Mi hanno fatto una foto così. Chiunque avrebbe detto: “Non sta poi tanto male Lorent”. Ma che succede dopo 12 ore stando in questa posizione, con le manette e un’intensa luce bianca in faccia? E dopo 24? E dopo una settimana? Estenuato. Distrutto. Facendomi tutto addosso. I meccanismi di protezione e garanzie dei diritti umani sono evoluti negli ultimi 70 anni, tranne che i metodi di tortura.


Lorent si alza in piedi. Alza un braccio all’altezza della spalla e lo pone su uno scaffale, come se lo tenesse legato.
R.- Essere in manette così. Sopportando getti d’acqua sul corpo ogni ora. La luce bianca, sempre bianca... Dopo, la corrente elettrica... Le botte. Ti legano i polsi con del nastro di carta - carta da giornale con nastro adesivo - in modo che le manette non lascino il segno. Lo stesso in testa. E questo nel mio caso. Stavano attenti a non lasciare traccia. Cercavano metodi alternativi alla violenza a botte, perché non conveniva loro. Ad altri prigionieri rompevano direttamente le costole e li lasciavano morire.
D.- È stato trasferito alla Tumba dalla Colombia. L’ex presidente Santos ha dichiarato, in un’intervista a El Mundo, che la sua era stata un’estradizione legale.
R.- Juan Manuel Santos, Nobel per la Pace, mi ha sequestrato e mi ha consegnato in un patto fatto con Maduro.
P.- Perché?
R.- Primo, perché io da tempo avevo denunciato la sua complicità con la dittatura. Il progetto personale di Santos - l’accordo con le FARC e il premio Nobel - urtava con la causa della democrazia in Venezuela. Santos aveva bisogno di compiacere Maduro, il quale, oltretutto lo ricattava attraverso la guerriglia. Le FARC, l’ELN e i gruppi narcoterroristi con cui Santos cercava un accordo, fanno parte del regime venezuelano. Maduro aveva la capacità di mandare all’aria il processo di pace. Secondo, da tempo in Colombia stavo lavorando su una questione scomoda a Santos in quel momento: l’occultamento di vittime delle FARC. Durante il processo di pace, nessuno parlava degli assassinati, dei sequestrati, dei desaparecidos. La mia ONG, sì. Le due cose si sono unite e Santos mi ha consegnato. Non è stata un’estradizione né una deportazione. Non c’è mai stato un ordine di cattura di un tribunale venezuelano né una richiesta dell’Interpol. Non mi hanno mai presentato dinanzi a un tribunale in Colombia. Mai si è fatto vedere un procuratore. Non mi hanno permesso di difendermi. Santos mi ha sequestrato e mi ha consegnato, ben sapendo cosa mi sarebbe accaduto.
D.- Lo hanno portato alla Tumba.
R.- Quando sono arrivato mi hanno svestito. Mi hanno fotografato. Mi hanno rapato. Mi hanno messo un indumento color kaki. E abbiamo iniziato ad attraversare porte. Grosse. Blindate. Fino ad arrivare a una sala coperta di specchi e telecamere. Tutto era pulito, immacolato. Ho sentito il potere. Assoluto. Totalitario. Abbiamo attraversato i corridoi stretti. Porte e ancora porte. All’improvviso ho sentito un ruggito, come di una turbina. La decompressione. E dopo, un’ altra porta. L’hanno aperta. E siamo entrati. Sembrava una stanza di refrigerazione di un mattatoio. C’erano solo sette celle. Tutte vuote. Mi hanno infilato in una e hanno chiuso le sbarre. Mi sono guardato intorno. La cella erra piccola, di due metri per tre. C’era una telecamera sul tetto che seguiva tutti i miei movimenti. Un campanello. Un materasso su una lastra di cemento. E due vasi, uno per bere acqua e l’altro per fare la pipì. E ho pensato: Uhhhhh...
D.- Uh...
R.- La sensazione di essere stato schiacciato dallo Stato nella sua maggior espressione di violenza e terrore. Letteralmente e figurativamente. Ho sentito il rumore della metropolitana sulla mia testa. Ho pensato a tutta quella gente, quei passeggeri più o meno spensierati. Mi sono detto a me stesso: “Nessuno di loro sa che io sono qui, sotto, seppellito in un sarcofago bianco ”. E anche: “Mai uscirò vivo da questa fossa”. In un posto così, non c’è bisogno nemmeno che ti mettano un dito addosso. Desideri che ti menino.
D.- Desiderava essere menato?
R.- Aspetti. Ho bisogno di finire la descrizione. Il freddo. Glaciale. Lo usano per rattrappirti. Perché tu non possa muoverti. Per ridurti a uno strato di pelle. Per diminuirti. Perché tu sappia che la persona, te, non vali niente. Per quanto tu possa essere preparato a qualcosa del genere, e gli attivisti venezuelani dei Diritti Umani siamo preparati, crolli. Ho iniziato a piangere.
D.- Come sopravvive un uomo due anni in quelle condizioni?
Lorent Saleh alza una gamba e colpisce la scarpa sul pavimento, due, tre, quattro volte.
R.- Questo è ciò che fanno: pestarti, pestarti, pestarti. Ma non ammazzarti. Quella è la cosa peggiore. Non ti ammazzano. Ti lasciano lì per poter alzare la scarpa, guardarti e ridere. Mi spiego?


P.- Sì, a maggior ragione le domando: come è sopravvissuto?
R.- Mia madre dice che mi hanno rubato quattro anni di vita. Io credo di no. Non me li hanno rubati né li ho persi. Il tempo non si è fermato. Sono entrato in prigione a 26 anni e ne sono uscito a 30. Quello che ho imparato non me lo toglie nessuno.
P.- Cosa ha imparato?
R.- Il potere della contemplazione. Il valore dell’essenziale che sembra invisibile. I giornalisti e i politici vorrebbero che io parlassi di altre cose. Ma questo per me è fondamentale. Quanto vale il colore verde? E l’azzurro? Io sono stato in una bara bianca, come un cieco, mesi e mesi. E quanto vale la coscienza del tempo? Non è che io non sapessi se era di giorno o di notte. È che non sapevo se avevo dormito un’ora o dieci. E che valore ha uno specchio? Quando non ti vedi la faccia per molto tempo, ti dimentichi di come sei. La prima volta che mi sono visto a uno specchio ero sotto ‘shock’. Mi sono palpato, sussurrato… “Questo sono io”. Il cielo non è qualsiasi cosa. Il sole, la luna, la pioggia, le stelle... nemmeno. Delle scarpe. Una sedia. Ho lottato tanto, come un pazzo, per avere cose che a chiunque sembrano cose senza importanza. Ho fatto uno sciopero della fame di 18 giorni affinché mi dessero un orologio. La Difenditrice del Popolo! mi diceva: “Dov’è scritto che un orologio è un diritto umano? Dove dice che dobbiamo lasciarle un tavolino?”.
P.- Alcune cose le ha ottenute.
R.- Sì, anche se dopo me le toglievano. Mi piace leggere e scrivere. Octavio Paz e Borges sono i miei autori preferiti. Ricordo quando finalmente mi hanno dato una matita. Consumata. Un mozzicone. E un foglietto di carta. Non volevo che finisse mai! Scrivevo molto piccolo. Lo giravo. Cercavo angoletti bianchi dove poter continuare a scrivere. Il valore delle cose... Sono stato sottoposto a una tecnica d’ isolamento cellulare. Il loro obiettivo è annullare, uno ad uno, tutti i sensi del prigioniero. Finché questi non sa più se è vivo o morto. E sa qual è l’unico modo di scoprirlo? Il dolore. Perciò vuoi che ti menino. E perciò colpisci te stesso. Contro il pavimento. Contro le sbarre. Contro qualsiasi cosa. Cercando il sangue. Perché solo il sangue e il dolore ti confermano che esisti ancora.
P.- Lei ha tentato il suicidio.
Lorent Saleh si rimbocca le maniche della camicia e stende il braccio sinistro. Due grosse cicatrici attraversano le sue vene.
R.- L’ho tentato quattro volte. Ma lì è entrato in gioco qualcosa di diverso. Ero alla Tumba da più di un anno. Sapevo che il regime non mi avrebbe rilasciato e che io non avrei ceduto. E ho preso una decisione: i miei secondini ormai non dormivano tranquilli; non avrebbero visto la tv rilassati mentre io fossi lì. E così l’ho annunciato: “Io sono disposto ad ammazzarmi. E se mi ammazzo voi andrete in galera. E ai vostri capi non importerà niente. Vi sacrificheranno come insetti”. Non era un: “Oh, ah, voglio morire!”. Anzi. Era il mio ultimo ricorso. Come uno sciopero della fame, ma più forte. Perché loro dovevano sapere che facevo sul serio. I miei tentati suicidi sono stati un modo di sfidare la dittatura.
P.- Si è tagliato le vene.
R.- La prima volta ho tentato d’impiccarmi.
P.- Impiccarsi?
R.- Sì, impiccarmi. Con un lenzuolo. Ma mi hanno visto attraverso le telecamere. Allora ho dovuto escogitare un’altra strategia. In bagno dovevo sempre andare accompagnato da un funzionario. Quando finalmente mi hanno dato il permesso di farmi la barba, ho iniziato a simulare la maggior sottomissione. Affinché mi prendessero in confidenza e attenuassero di un minimo la sorveglianza. E così ho iniziato a portarmi in cella piccoli pezzetti di lamette da barba. Finché un giorno, di notte… Da allora, un funzionario ha dovuto dormire ogni notte nella mia cella. Con un occhio mezzo aperto, atterrito. Una notte ho tentato d’impiccarmi dalle sbarre. Il mio secondino si è svegliato e si è lanciato su di me per salvarmi e salvarsi lui! Un altro giorno, tornando dal gabinetto, gli ho chiuso la porta in faccia. Gli ho detto: “Sono stanco. È finita”. E mi sono tagliato di nuovo. Ai dittatori bisogna sfidarli. Affinché sappiano che non sono degli dei. Che anche loro possono sanguinare e piangere e soffrire. E che i loro abusi hanno un costo, non solo per gli altri. Quella è la vera resistenza: la sfida.
D.- Nel suo caso, qual era l’obiettivo concreto delle torture?
R.- Che denunciassi Antonio Ledezma, María Corina Machado, Leopoldo López o Álvaro Uribe. Erano ossessionati da Uribe. Io ero il pezzo mancante nella loro delirante narrativa: Colombia, i paramilitari, l’opposizione venezuelana, gli americani. Qualcosa di simile gli è successo a Joshua Holt, un mormone americano con il quale ho coinciso al Helicoide. L’hanno arrestato semplicemente per essere biondo con gli occhi azzurri. Il nemico yanqui... Rafforzava il loro racconto.


D.- Dopo due anni e mezzo nella Tumba, è stato trasferito al Helicoide.
R.- Il cambiamento è stato difficile. Ero abituato al silenzio e alla solitudine. L’Helicoide era chiasso, sporcizia, ammucchiamento, depravazione. Prigionieri politici e oppositori si mescolavano con presunti corrotti e 200 prigionieri comuni. Mi sono ammalato.
P.- Com’è l’Helicoide?
R.- L’Helicoide è la vera espressione dello Stato mafioso. Lì regna l’estorsione, soprattutto economica. A livelli che nessuno è capace d’ immaginare. Ci sono prigionieri che addirittura hanno dovuto pagare anche 200.000 dollari in cambio di una cella un po’ meglio. Le loro famiglie si sono indebitate, e i loro figli e nipoti. E dopo ci sono i corrotti, veri e presunti. Il SEBIN sa che Tal dei Tali non ha soldi. Gli hanno istruito una pratica simulando un fatto punibile, come ai prigionieri politici. Li sequestrano. Li rinchiudono. Li torturano. La famiglia di Tal dei Tali non ha dove poter fare la denuncia, certo, perché è la stessa polizia che lo ha sequestrato. E allora gli dicono: “Venga, Tal dei Tali, paghi tanto”. E Tal dei Tali paga.
P.- E loro la chiamano “lotta contro la corruzione”.
R.- È la peggiore corruzione. Ed è endemica. Per il Governo ha due vantaggi. In totale rovina economica, gli permette di pagare i funzionari sbirri. E allo stesso tempo, garantisce che questi saranno inflessibilmente leali. Se qualunque di questi funzionari decidesse un giorno di fare quanto è giusto, basterebbe ricordargli il suo record per farlo rientrare immediatamente all’ovile criminale. Così funziona il sistema del terrore in Venezuela. Perciò non potevo far vedere il minimo segno di debolezza.
D.- Altri lo hanno fatto?
R.- Ho visto uomini inginocchiarsi per essere picchiati. E il fatto peggiore -il fatto più terribile e toccante- ho visto uomini non fare niente di fronte alla sofferenza di altri uomini. Ho visto prigionieri appesi a una rete per tre giorni. Crocefissi. E altri prigionieri passare al loro fianco come se niente fosse. Ho visto prigionieri prestarsi per maltrattare altri prigionieri, credendo così di poter evitare di essere maltrattati. Ciò non succedeva, chiaro. Anche loro venivano maltrattati. E anche di più. Perché nessuno, né i loro secondini né i loro compagni, si fidavano più di loro. È così morboso, così tragico: vedere l’essere umano nel suo stato più basilare e miserabile. Come l’ebreo che porta un altro ebreo al forno. Questo è ciò che ha raggiunto il chavismo, la disumanizzazione più abietta.
D.- Non so che dire.
R.- Lasci dirlo a me. Alcuni si abituano a picchiare, sottomettere, torturare. Ma la cosa peggiore è che altri si abituano a essere picchiati, sottomessi, torturati. È come l’elefante bebè, il quale viene legato da una catenina con un chiodo per terra. E l’elefante cresce e diventa enorme, ma continua lì, incatenato. Perché non sa che ha delle immense forze per rompere la catena con un solo movimento. L’essere umano è così. È l’animale più domestico. All’Helicoide i prigionieri vengono trattati peggio dei cani e la maggior parte lo sopporta.
P.- Lei si è mai sottomesso?
R.- Sì. Una volta ho taciuto. Ed è stato il giorno peggiore della mia permanenza in galera. Della mia vita. Una mattina mi sono svegliato sentendo il pianto di un uomo chiedendo clemenza. E dopo un colpo secco. E un altro. E allo stesso tempo le risate del torturatore. Mi sono avvicinato alle sbarre della mia cella. Nessuno diceva niente. Mi ha fatto schifo. Ho iniziato a chiamare il funzionario, tremando di paura. Ed ecco apparire il funzionario. Con una sciolta naturalità. Aveva le gocce di sudore sulla fronte. Era affannato. Aveva un sorriso in faccia. Mi ha domandato, gentilmente: “Come stai Lorent? Di che hai bisogno?” E sono crollato. La goccia, il suo respiro affannoso di tanto picchiare, e quel sorriso… Era un funzionario che avevo creduto incapace di fare qualcosa del genere, diverso dagli altri. Come poteva essere così spietato con un altro uomo e tanto gentile con me? Come mandare giù questo? Non ho saputo cosa dirgli. Sono tornato in fondo alla mia cella, come un cane. Quella sera mi hanno dovuto narcotizzare. Avevo distrutto la cella. Mi ero dato dei colpi contro la parete. Avevo rotto tutto. Mai più ho taciuto. Ma non mi perdono l’aver taciuto quel giorno. È stato un tradimento. A quell’uomo. A me stesso. Alla mia causa.
D.- Ha anche imparato.
R.- Molte volte, per giustificarsi, i funzionari dicevano: “Questi che abbiamo menato sono prigionieri comuni, delinquenti”. E anche se lo fossero stati? Come se il fatto che una persona sia un criminale ti dà il diritto di smettere di essere umano. Orbene: torturare è da umani? Ci pensi... Io credevo che non lo fosse. Ma forse mi ero sbagliato. L’uomo non è un buon selvaggio. Rousseau si è sbagliato. Il socialismo e il comunismo pure, certo. A proposito, perché il nazismo è proibito e il comunismo no? Ci ha mai pensato qualche volta?
D.- Molte volte... Lei è stato il protagonista della rivolta all’Helicoide.
R.- Sì, so che le immagini hanno avuto un impatto mondiale. La rivolta si vedeva arrivare. È stata la somma di molti fattori: l’estorsione, le torture, il sequestro di minorenni… Ragazzi di 16 anni ammucchiati in una cella. Non lo potevo sopportare. E l’Helicoide è scoppiato. Ed è stato dimostrato quello che le dicevo poca fa con la metafora dell’elefante. L’essere umano ha una forza incredibile, solo che non lo sa. Abbiamo fatto saltare tutte le sbarre di quel maledetto posto. Abbiamo preso tutte le telecamere di sicurezza. Io ho distrutto tre lucchetti della mia cella con le mie mani. I funzionari hanno visto quello e sono fuggiti. Quel giorno hanno scoperto che anche loro sanguinano, anche se non hanno subito nemmeno un graffio. Quel giorno si sono resi conto che lì c’erano uomini, non insetti. Lo stesso accade con la società.
D.- Dopo la rivolta, tre gruppi di prigionieri sono stati liberati. Lei no.
R.- Io ho dovuto assumere il castigo della rivolta, che è stato veramente duro. Ho visto come sono stati liberati tutti i miei compagni, attivisti e prigionieri politici. Due persone che si salutano attraverso la ringhiera, il calore umano diviso dal freddo dell’acciaio. Non è facile, no. Quando lasci le mani e resti da solo... Ti prendi la testa, aspetti la sferzata dell’uragano e allo stesso tempo pensi: perché lui sì e io no, quando ho più diritto, quando sono qui da più tempo? E ti senti un miserabile nel pensarlo. E giungi alla conclusione che Dio non esiste o che non gliene importa niente. E capisci che c’è solo una via di uscita per poter sopportare ciò che viene: uccidere qualsiasi speranza di uscire in libertà.


D.- Come lo ha fatto?
R.- Rinunciando a tutto. Alle cose più importanti, compreso l’amore verso la famiglia. Oggi sono liberale, di destra e cattolico. Ma in quei momenti ci sono state due cose che mi hanno aiutato in modo particolare. Ho studiato il Buddismo come forma di distacco. E ho iniziato a leggere i discorsi di Mujica [l’ex presidente dell’Uruguay]. Mandela è il riferimento universale di qualsiasi prigioniero, ma il tempo e le circostanze mi sono sconosciute. Mujica, invece, è stato 13 anni prigioniero in un carcere chiamato appunto La Tumba. E leggere i suoi testi era come leggere la mia mente. Soprattutto una sua frase, che faccio mia: “Ho scoperto quanto forte strilla una formica”. Cioè, il valore della contemplazione. Della concentrazione nei particolari più infimi come modo di sopravvivenza.
D.- Lei è stato messo in libertà pochi giorni dopo la sospettosa morte del consigliere Fernando Albán, che è caduto dal decimo piano della Plaza Venezuela. Lei crede che è stato ammazzato?
R.- Sospetto che lo abbiano lanciato già morto, anche se sarebbe la stessa cose se si fosse lanciato lui. Sarebbe comunque sempre una vittima diretta della dittatura. Io sono stato in quello stesso decimo piano, vicino a quella stessa finestra e conosco la disperazione che potrebbe portare un uomo a buttarsi giù.
D.- Perché è stato liberato?
R.- Molte speculazioni sono state fatte sui motivi. È stato anche detto che è stato grazie all’ex presidente Zapatero. È falso. Zapatero non ha avuto niente a che fare con la mia liberazione. Sono libero per un cumulo di fattori. Il primo, la lotta di mia madre. Dopo, la pressione dei giornalisti, quando nemmeno i politici volevano parlare del mio caso. Il lavoro dei miei avvocati. L’appoggio del Parlamento Europeo, che l’anno scorso mi ha conferito il Premio Sajarov. L’indebolimento dello stesso regime. E l’aiuto di molti paesi, compresa la Spagna.
D.- Non serba rancore.
R.- No. La necessità di vendetta è un’altra maniera di servilismo. Inoltre, la mia cella non è vuota. Nelle carceri chaviste ancora ci sono molte persone innocenti per le quali dobbiamo lottare e fuori, un intero paese da ricostruire.
D.- Come?
R.- I venezuelani si sentono sconfitti. Io non dirò loro, come fanno alcuni: “La fine è vicina, manca poco”. Né manca poco né sarà facile. È e sarà difficile. E, oltretutto, dev’esserlo. Da piccoli ci dicevano che le cose che valgono la pena non si ottengono senza sforzo e sacrificio. E questo per cui stiamo lottando, vale la pena. In effetti, è la cosa più valiosa che abbiamo. È la democrazia ed è la libertà.
D.- Che cos’è oggi il Venezuela?
R.- Uno Stato terrorista. Definitivamente. Il regime di Maduro si sostiene attraverso il panico, la violenza e la fame. La fame non è la mera conseguenza di un mal governo. È una strategia, e delle più effettive, di sottomissione. Il regime deve soggiogare i venezuelani perché ormai è incapace di convincerli. Come lo fa? Approfittandosene della sua nobiltà e profonda vocazione democratica. Così gliel’ho detto al presidente Sánchez.
D.- Cosa gli ha detto?
R.- Gli ho detto: “Senta, presidente: io vengo dalla linea più radicale dell’opposizione e mai è stata presa in considerazione la lotta armata. Se fosse stata proposta, la metà dei leaders chavisti sarebbero sotto terra. Milioni di venezuelani hanno preferito addirittura l’esilio prima che il confronto. Il popolo è pacifico. Chi è terrorista, è il Governo”.
D.- E cosa le ha risposto?
R.- Mi ha detto che anche lui lo considera così.
D.- E lei gli ha chiesto qualcosa di concreto?
R.- Ho insistito sull’importanza delle sanzioni. Non è vero che le sanzioni nuociano la gente, come ha detto Zapatero. Anzi. Il popolo ringrazia che i torturatori siano castigati. Ma, inoltre, vediamo le cose più in là del Venezuela e le sue vittime. Perché non sanzionare criminali di questo calibro? Che messaggio daremmo al mondo? Che a maggior crudeltà, massima impunità. Al presidente Sánchez gli ho fatto anche un’altra riflessione: non è l’opposizione venezuelana quella che deve esigere la resa del regime. Lo devono fare la Spagna e le altre democrazie del mondo. Siete voi quelli che dovete dire: “Fino qui. Non più. Basta”.

QUI la intervista in lingua originale

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