Lettera aperta a Sergio Barducci (di San Marino RTV)
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Carissimo Sergio,
ho partecipato alla trasmissione Indaco, sul tema delle unioni civili, un Progetto di Legge che è stato presentato in questi giorni a San Marino. Come ho già avuto modo di scriverti personalmente, mi complimento con te per il clima sempre positivo e dialogico che sai mantenere, anche di fronte ad argomenti difficili e in presenza delle svariate posizioni culturali e ideali rappresentate.
C’è un aspetto di quanto accaduto che mi provoca ad un confronto che può diventare, spero, occasione di un dibattito che porti a trovare soluzioni, vie, sentieri “non interrotti”, tra tutti coloro che hanno a cuore il bene comune e la storia delle persone come possibilità di felicità.
Ecco le due parole: la storia delle persone e la felicità.
Nessuno, credo, può prescindere dal proprio vissuto, e la testimonianza di Alessio lo dimostra. In trasmissione ha ricordato la sua esperienza orfanotrofio. Mi pare di capire “Orfano di genitori vivi”.
Capisco allora l’insistenza con cui egli ha parlato dell’amore come il grande criterio con cui affrontare ogni situazione umana. Credo però che l’amore non può stare senza la verità. Del resto già Gesù ci ricordava che la verità ci farà liberi.
Per questo, se da un lato nessuno può entrare nel mistero della vita e delle scelte di Alessio, dall’altro è anche vero che c’è una verità dei rapporti tra le persone che è necessario realizzare.
Ed è ciò che volevo affermare sottolineando che tali unioni civili prospettate dal progetto di legge non potranno mai essere equiparate alla famiglia, né tanto meno potranno, nel caso di coppie omosessuali, dare origine al cosiddetto diritto al figlio.
Sergio, hai ricordato le tante situazioni di famiglie fallite, i cui componenti hanno poi cercato altre situazioni di convivenza. Capisco benissimo la gravità della situazione, la drammaticità della vita delle persone che si trovano di fronte al fallimento di quello che sembrava essere il sogno più bello della loro esistenza, quell’amore che sembrava dover essere il per sempre della vita, ma non sarebbe meglio o più opportuno interrogarci sulle cause di questi fallimenti? E quindi giudicare una cultura in cui ogni definitività, ogni “per sempre” è bandito, lasciando che l’unico “per sempre” della vita siano i tatuaggi?
Riflettiamo anche sulla seconda parola del nostro dibattito: la felicità.
Quante ferite nelle parole ascoltate! E allora ecco l’illusione (così mi pare) che la ricerca di nuovi diritti sia la strada per la soluzione di tutti problemi. Ma, se da un lato riconosciamo quella che Marcello Pera chiamava la “autofagia dei diritti”, quel fenomeno per cui si è arrivato a ritenere che il diritto alla autodeterminazione portasse persino direttamente al diritto di togliere la vita ad esseri innocenti (e qui comprendiamo che si tratta della riflessione sulla tragedia dell’aborto) dall’altro lato dobbiamo seriamente chiederci quale sia la radice e la sorgente della felicità, rifiutando l’illusione che siano le leggi (più o meno giuste) a renderla possibile.
Così, dopo questa trasmissione televisiva ci troviamo a chiederci quale strada umana renda possibile quella giustizia che realizza, nel tempo, le condizioni migliori per un’esistenza degna e costruttiva.
Forse sarà il ritrovare il senso della nostra storia e la bellezza delle nostre radici ciò che permetterà il realizzarsi di un bene per tutti.
Non ci vergogneremo delle “antiche strade” che hanno costituito nella nostra storia la possibilità di fare l’esperienza della libertà, la quale non è arbitrio ma realizzazione di sé nella verità.