La disputa di Natale
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Il bambino è gravissimo.
È la vigilia di Natale ed è necessario intervenire: ma come?
Due primari si confrontano e scoprono di avere due soluzioni molto differenti: uno ritiene di dover operare subito, l’altro, invece, crede che l’operazione immediata, senza una preventiva terapia farmacologica, possa risultare fatale.
Una delle soluzioni salverà la vita del bimbo, l’altra lo ucciderà.
Inizia un confronto serratissimo tra i due chirurghi; inizialmente ciascuno richiama i punti a favore della propria ipotesi, invocando alcuni studi, i casi in letteratura medica, l’esperienza personale...
Esaurite le rispettive argomentazioni, i due espongono una serie di argomenti a sfavore della teoria altrui.Discutono in una piccola stanza: il confronto si scalda, la vita del bambino è appesa alla decisione dei due medici che cercano di sviscerare tutti gli argomenti a favore e tutti gli argomenti contrari alle ipotesi sul tavolo.
C’è poco tempo, occorre decidere valutando al meglio ogni aspetto.
Non mangeranno, non torneranno a casa, non usciranno da quella stanza senza maturare una decisione: la loro vita, la loro quotidianità sembra, quasi naturalmente, passare in secondo piano.Fuori dallo stanzino, tra gli addobbi di Natale improvvisati dalle infermiere, i genitori del bambino attendono: si rendono conto del contrasto di posizioni e sanno che da quel contrasto uscirà la decisione che salverà o condannerà il figlio.
I genitori avvertono che una delle due ipotesi è adeguata alla situazione in cui si trova figlio, l’altra è solamente una falsa soluzione.
Falsa perché, pur sembrando corretta e sostenuta da una serie di apparentemente valide ragioni, non salverà loro figlio.
L’altra, che pur apparentemente mostra alcuni punti di debolezza, restituirà la vita al figlio.
I due genitori, che medici non sono, non hanno ovviamente sufficienti elementi per stabilire con certezza quale sia l’ipotesi vera e quale sia solo verosimile.
Fuori dalla stanza, la mamma e il papà del bambino sperano solamente che al termine del confronto abbia la meglio l’ipotesi giusta: non importa quanto duri il confronto, purché finisca in tempo per salvare il figlio.
E che importa se trascorreranno il Natale in corsia: importa che il figlio si salvi.
E che importa se uno dei due medici dovesse insultare l’altro, se ciò servisse a prendere la decisione giusta.
Che importa se, alla fine, la ragione sarà del medico più simpatico e gentile o del medico burbero e scostante? Che importa se i due medici litigheranno? Che importa se uno ne uscirà un poco umiliato e l’altro esaltato?
Ai genitori neppure importa che uno dei due medici si riveli più combattivo, imponendo la propria ipotesi: sperano invece che ogni aspetto personale sia sottomesso alla ricerca dell’unica strada che salverà il figlio.
Con quale coscienza i due medici resteranno a discutere nella stanza, a che fine?
Forse per affermare la propria supremazia sul rivale? Per non rovinare una amicizia? Per ottenere l’assenso degli infermieri? Per finire in fretta e correre a casa scartare i regali?
La vita del bambino sarà salvata dalla scelta giusta, dall’unica soluzione adeguata alla realtà: si salverà, insomma, se si amerà più la verità (nel senso di rapporto tra l’intelligenza e la realtà per come è) che le proprie ragioni o idee.
I genitori sperano, ovviamente, che il criterio ultimo con cui si prenderà la decisione sia la guarigione, la vita del figlio: ogni altro criterio, l’educazione, l’amicizia, la simpatia, la visibilità, il successo, la ragione, la carriera, il guadagno, la riconoscenza, il temperamento... sia messo in secondo piano rispetto alla ricerca della verità, della cura.
Ed i medici salveranno il bambino se accetteranno di entrare nel confronto più interessati alla verità che all’affermarsi della propria ipotesi.
Gioirà il medico che, avendo a cuore la vita del bambino e amando la verità, riconoscerà ad un certo punto della discussione la fatale debolezza della propria ipotesi.
Abbracciando la verità portata dall’ipotesi opposta salverà una vita.
Gioirà se avrà piena coscienza del fatto che, se non conducesse all’unica opzione vera, il mero confronto non avrebbe alcun senso: anzi condannerebbe il bambino.
Non avrebbe gran senso parlare, confrontarsi a lungo e sino alle urla con il collega, se non per individuare l’unica ipotesi che salva quella vita.
In Treccani il “dialogo” è un “Discorso, colloquio fra due o più persone”: il mero colloquio.
Con “disputa”, sempre in Treccani: “Discussione fra più persone che sostengono ciascuna il proprio parere su una determinata questione (...) Anche, esercitazione pedagogica ch’era in uso nelle scuole ecclesiastiche, forma di disputazione. Contesa, diverbio: (...) In relazione all’uso trans. di disputare, partecipazione a una gara, a una competizione”.
La probabilità che i due medici non si affidino alla sorte e arrivino, per passi di ragione, alla scelta giusta, è aumentata dalla serietà con cui porteranno i propri argomenti e entreranno nel confronto.
Tanto più sosterranno la propria ipotesi, tanto più emergeranno i punti di forza e i punti di debolezza.
Non è nascondendo un limite del proprio ragionamento che salveranno quella vita.
Non è evidenziando oltremodo un particolare, perdendo di vista il quadro generale, che salveranno una vita.
Il mero colloquio non salverà la vita: la discussione, tanto più entrerà nel merito e nelle pieghe di ogni fattore in gioco, tanto più consentirà di approssimarsi all’unica ipotesi vera, perché adeguata.
Forse un dettaglio, un particolare emerso dopo due ore e mezza di confronto, chiarirà quale sia l’ipotesi preferibile.
Solo due medici certi delle proprie idee e pronti al confronto al punto di essere smentiti e riconoscerlo, potranno arrivare, per passi di ragione, alla soluzione.
Vi è grande differenza tra la mera “Comunicazione orale tra due o più persone” ed il “Vivace confronto di idee, di opinioni, tra più persone su un dato argomento” (cfr. Definizioni di “dialogo” e “disputa” in altro dizionario).
Vivace, riguarda la vita.
La differenza è data dall’obbiettivo, dalla meta: il raggiungimento della verità.
I medici non potranno uscire dalla stanza e spiegare ai genitori che è stato bello parlare, che decidere è impossibile, che è stato solo un piacevole colloquio: i genitori accetteranno unicamente il frutto di quel confronto, una decisione.
Ecco: chi ha a cuore realmente la vita, non può accettare che su questioni decisive non si giunga ad una certezza.
La necessità della decisione è data dal bene in gioco: la vita del bimbo chiede una decisione, non rimandabile.
Tale decisione sarà tanto più ragionevole, quanto più il confronto sarà dettato dalla
meta.
Per giungere ad una decisione parrebbe più utile una disputa che non un dialogo.
Peraltro, si può entrare in un dialogo senza competenze, non in una disputa.
Se nello stanzino entrasse un clown o un fattorino con una pizza calda o un professore di ingegneria aerospaziale, le rispettive posizioni non sarebbero prese in considerazione.
La fretta e la gravità della questione non consentono divertenti o insignificanti divagazioni: resti nella stanza chi ha competenze per salvare la vita, fuori gli altri.
Chi non ha una ipotesi certa, una ipotesi sostenuta da argomenti, una ipotesi figlia degli studi e dell’esperienza, dell’intuizione e della riflessione, dell’affetto per la vita del bambino, non entri: farebbe perdere tempo prezioso.
Solo una decisione permette l’azione: solo uscendo avendo scelto l’ipotesi più verosimile i due medici inizieranno a curare il bambino.
L’azione, poi, dirà definitivamente della bontà, della verità, della decisione.
Se la decisione, verificata in azione, fosse sbagliata, si dovrà riflettere sul metodo che ha condotto alla scelta: ma senza la verifica in azione, potrebbe essere azzardato obiettare qualcosa sul metodo.
L’esercizio puramente teorico non è compatibile con la necessità di salvare la vita del bambino e non è compatibile con l’attesa dei genitori e del bambino.
Su quali argomenti l’uomo può accettare di perder tempo e non giungere ad una decisione?
Chi può teorizzare che sia sufficiente dialogare? Forse soltanto chi non cerchi una decisione, chi possa rinunciare all’azione, chi non brami la verità.
Quale uomo può, serenamente, sottrarsi dal mettere la propria umanità, la propria originalità, la propria personalità nel confronto con chi fosse in ricerca della verità?

E’ stato osservato: “Occorre che nel confronto con tutte le cose, che nell’universale paragone, uno non solo non sia automaticamente schiacciato, non solo assimili automaticamente il suo volto al volto di chi incontra, ma sappia in ogni circostanza in ogni incontro dare l’apporto irriducibile suo, l’apporto della sua originalità, perché ogni persona è irriducibile ad un’altra; perciò l’apporto della sua creatività è insostituibile, irriducibile, ed è arricchente il consorzio o la compagnia o il popolo con cui vive” (L. Giussani, Il Rischio educativo).
Se uno dei due medici rinunciasse in partenza al confronto, diminuirebbe la possibilità di giungere per passi di ragione alla decisione che può salvare la vita del bambino.
L’altro medico sarebbe in balia della propria opinione e potrebbe non verificarla in ogni aspetto, fin nel dettaglio: infatti, non dovendo rendere ragione all’esperto collega, potrebbe sottovalutare alcuni degli aspetti che lo hanno condotto ad abbracciare la propria ipotesi.
Su quali questioni un uomo può dirsi così certo dal rinunciare sistematicamente al rendere ragione delle proprie ipotesi?
Forse il calcio? L’educazione dei figli? L’alimentazione? Il lavoro? L’abbinamento tra calze e cravatta? La compilazione delle disposizioni anticipate di trattamento? Il colore della tinta dei capelli? L’aborto? La ricetta della Carbonara?
Quale aspetto della vita è talmente irrilevante dall’essere ragionevole un approccio irragionevole, al punto da dialogare senza aver a cuore la meta?
Ma il bambino è gravissimo forse, anche, in un altro senso.
Grave, nel senso di pesante, di cosa che è seria, importante in sé: penso allo sguardo di un bambino verso il padre, lo sguardo di un figlio che scruta per comprendere come il padre si muove nelle cose della vita.
Nel dormiveglia, nella fioca luce del presepe in fondo alla sua stanza, in attesa della decisione dei medici, il bimbo cerca il volto dei genitori che si alternano nella stanza, come cercando di capire come stanno loro di fronte a ciò che accade.
Cerca in loro conferme che quel dolore passerà, cerca in loro le ragioni per accettare le medicine, per continuare ad avere fiducia nei medici.
Come, in fondo, ogni figlio guarda al padre per capire il senso delle cose: nella c. d. “età dei perché” sembra di continuo chiedere “oh uomo, rendi ragione delle cose!”.
Il bambino e la realtà pongono una domanda grave, seria, pesante: ancor più grave è disattenderla.
Nel silenzio sofferente il bimbo sembra ripetere la domanda di ogni uomo, ogni giorno, in ogni condizione, ovvero “perché facciamo ciò che facciamo?”
Il bambino è davvero gravissimo.
Il padre, a ben vedere, non vuole, soltanto, portarlo sano fuori da quella stanza; la meta per il padre è più lontana ed è condurre fuori (e-ducere, educare) quel bambino dalla fanciullezza sino al vederlo uomo, capace di rendere lui stesso ragione di ciò che sceglie.
Del resto, il bambino non vuole stare ore a sentire le opinioni di tutti gli amici, parenti, passanti, sconosciuti: vuole (...subito!) dal padre una risposta al perché di tutte le cose.
Risposta che il padre, definitivamente, non ha; che nessun uomo, definitivamente, ha.
Su certe questioni l’uomo, per sua natura, non può neppure esaurire gli argomenti, valutarli tutti e giungere a certezza.
Quale uomo, infatti, è in grado di rispondere a tutte le domande che il proprio cuore e la propria ragione pongono?
Per passi di ragione si giunge a riconoscere che la ragione non contiene tutta la realtà.
Il bambino è gravissimo e potremmo, ad esempio, non sapere le cause della malattia...
Un’ultima osservazione: verrebbe da chiedersi quale interesse ci sia, allora, nel dialogante ascolto della narrazione degli errori altrui se non per confutarli e trarne un metodo ed un’esperienza, per sé e per il narratore.
Aver a cuore lo scopo spiega perché il dialogo non sia, in quanto tale, arricchimento.
La ricerca, nel dialogo, di una sorta di complicità, di un rapporto in cui prevalga il mero scambio compulsivo di racconti in ordine ai propri errori e ai propri dubbi, non genera una decisione, quanto piuttosto una sostanziale sfiducia.
Al contrario, la disputa è connessa alla testimonianza: tutt’altro che violenta, la testimonianza è documentazione della passione per l’interlocutore.
Puoi dire di voler bene al bambino, tanto quanto ti spenderai per la ricerca della verità, dell’unica verità in grado di salvargli la vita.
La forza e l’impegno che i medici impiegheranno nel confronto dicono di quanto abbiano a cuore la vita del piccolo paziente.
Medici (o genitori, o educatori...) distratti, non amano fino in fondo quella vita.
Dialogo e disputa sono strumenti, come la zappa o il pianoforte.
L’obbiettivo del nostro impegno comporta la scelta dello strumento: esistono incontri in cui è dato solo dialogare, non potendo subito e sempre e solo disputare.
Esistono incontri e questioni in cui è necessaria una decisione.
Un’ultima notazione: nella versione della Bibbia (CEI/Gerusalemme) che ho avuto modo di considerare, il vocabolo “dialogo”, in tutte le Scritture, non compare.
Compare invece il vocabolo “disputa”, come in Atti al capitolo 23.
San Paolo, in Atti 23, non dialoga ma entra in una disputa (accesa al punto dall’indurre il timore di un linciaggio).
Il Signore, stando al testo, incoraggia Paolo e mette in relazione la disputa alla testimonianza.
Paolo affronta seriamente il giudizio sulla “speranza nella risurrezione dei morti”.
Non accetta che su certe questioni si possa assumere, senza un confronto, l’opinione del dittatore di turno, sia esso il partito, la loggia, la rivoluzione, il relativismo, la moda.
Se fossi nel dittatore, auspicherei che i sottoposti si limitino a dialogare, a scambiare (velocemente, allegramente, spensieratamente, tecnologicamente) opinioni, senza porsi il tema di quale sia la verità su un dato argomento.
Se fossi in un dittatore, spererei che i sudditi disimparino la strada, il metodo che conduce al riconoscere la verità: che credano al potere!
La dittatura del relativismo ha buon gioco nell’entusiasmante, costante, onnisciente, superficiale, spassoso, iper-connesso, dialogo senza meta... ma il bambino è gravissimo!
Qualcuno ha scritto che “i rapporti sono veramente umani, tali da dare sicurezza e gusto, solo quando sono l’esito di una tensione tra due persone, o parti, in collisione tra loro (come due navi che si urtano). In questa collisione sono implicate l’intelligenza e l’affettività.
Ma quando ciò accade? Quando c’è di mezzo il Destino”.
Ai profeti del dialogo, disinteressati della verità, auguro di ricordare il Destino, che in questa notte, in cui ogni uomo desidera la vita per sé e per i propri figli, nasce.
Buon Natale.
Davide Fortunato
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