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Abusi di autorità nella chiesa (?)

Autore:
Sr. Maria Nives Colle
Fonte:
CulturaCattolica.it
L’articolo Abusi di autorità nella chiesa - Problemi e sfide della vita religiosa femminile di Giovanni Cucci, pubblicato in Civiltà Cattolica, Quaderno 4083-4084, ci lascia una impressione complessa e nell’insieme penosa

L’articolo Abusi di autorità nella chiesa - Problemi e sfide della vita religiosa femminile di Giovanni Cucci, pubblicato in Civiltà Cattolica, Quaderno 4083-4084, ci lascia una impressione complessa e nell’insieme penosa. Non tanto per la supposta gravità dei fatti rivelati, quanto per il livello e la modalità delle argomentazioni: certamente nel vento della moda e tali da attirare l’attenzione – abusi da parte delle superiore religiose femminili, quale ghiotto argomento! – ma di una superficialità impressionante, tanto più in un autore che ci ha dato buoni articoli, in altri campi.
Non si citano statistiche o indagini approfondite tra le fonti: ma soltanto esperienze pastorali e colloqui avuti, in modo generico.
I titoli dei paragrafi già sono allusivi: Il fascino del potere nelle Congregazioni femminili. Non mancano affermazioni equilibrate e accettabili come questa: «Il vento di rinnovamento suscitato dal Concilio Vaticano II e dal magistero successivo non è stato vissuto allo stesso modo nelle varie Congregazioni religiose. Alcune hanno dato vita a una difficile, ma efficace opera di aggiornamento e di riforma; altre, invece, non sono riuscite in tale scopo, o per mancanza di forze, o perché convinte che le consuetudini sinora praticate potessero costituire ancora la modalità ideale di governo. La storia insegna purtroppo che senza una tale fatica di confronto e ricerca di strade nuove si rischia di smarrire la freschezza del carisma, avviando un lento ma inarrestabile declino». Ma si affacciano poi considerazioni molto gratuite di questo tipo: «Va anche aggiunto che le dinamiche della vita religiosa femminile risultano essere molto diverse da quella maschile sotto vari aspetti. Gli studi e le molte possibilità pastorali di chi ha ricevuto gli Ordini permettono ai religiosi maschi di vivere con maggiore apertura e autonomia anche la vita fraterna e i voti religiosi».
Siamo d’accordo sul fatto che le dinamiche siano differenti; anzi, questo dovrebbe essere scontato; che poi questa differenza coincida ipso facto con un difetto di base da parte femminile, questo è per noi meno evidente, e ci ricorda tristi esempi di un clerical-maschilismo a noi ben noto: cambiano i tempi, cambiano un po’ le forme ma il problema è ancora lì. Non ci saranno più i responsabili ecclesiastici che parlando alla comunità femminile esortavano: siate virili! Come usava un tempo – tanto più che virilità e femminilità sono meno di moda. Ma sempre si troverà chi confonde una legittima e doverosa diversità che plasma differentemente la comunità femminile, con tutte le deviazioni possibili.
E pare che ci siamo dimenticati le belle lezioni di san Giovanni Paolo II che, esempio di tutte le virtù virili, era in grado di non solo rispettare ma anche ammirare ciò che le donne sanno vivere e realizzare con il loro genio particolare – sanamente e lecitamente differente. E forse anche di imparare qualcosa da loro.
Così viene facilmente ipotizzata come arbitraria la decisione della superiora in merito a chi far studiare e chi no –, applicando evidentemente criteri validi in un istituto clericale maschile, dove tutti studiano, a una comunità femminile con altro carisma, forse anche a un monastero di clausura, come se in questo ambito non fosse doveroso e lecito operare un discernimento in base alle attitudini. E ovviamente viene ipotizzato che la scelta sarà fatta in base a preferenze indebite, o che l’obbedienza delle sorelle sarà cieca e priva di cervello, in quanto vittime di superiori manipolatrici.
Certamente, non vogliamo dire che le consacrate, superiori e non, siano esenti da errori e peccati, o le comunità esenti da problemi; vogliamo invece far notare che l’articolo cade ampiamente in quello che alla fine dice di voler evitare: «occuparsi di tali casi non significa certamente ridurre a questo la realtà della vita religiosa femminile. Nessuno nega il ruolo e l’importanza dell’opera svolta da tante religiose nel servizio agli ultimi (Nota Bene: come se il servizio degli ultimi fosse l’unica giustificazione possibile dell’esistenza di una comunità femminile) e neppure si vuole mettere in un medesimo sacco ogni conduzione e stile dell’autorità negli Ordini femminili».
Questo risultato viene in realtà largamente ottenuto, anche grazie all’espediente di citare estrapolandole dal loro contesto frasi del Cardinale Prefetto della Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica su esempi limite; dal caso di una Congregazione in cui una superiora è rimasta troppo a lungo in carica, si conclude: «una tale situazione fa sorgere la domanda se il governo sia considerato una forma di assicurazione di privilegi». E qui segue una lunga lista di esempi di questi privilegi: Una superiora ha ospitato per lunghi anni la mamma anziana; ma veramente noi conosciamo tanti esempi di mamme anziane di semplici monache, che sono state caritatevolmente prese in carico dalla comunità sistemandole nel modo che è parso più opportuno all’interno degli edifici monastici!
Si parla di privilegi di abiti migliori: in effetti la regola di San Benedetto, ad esempio, prescrive che chi esce dalla clausura abbia abiti alquanto migliori di chi non esce – e quindi la superiora e l’economa e forse qualche altra li avranno facilmente; e così via. Personalmente, per molti anni ho fatto l’ortolana e posso assicurare che il mio guardaroba era il più rattoppato di tutta la comunità; quando poi sono stata nominata superiora, non ho avuto bisogno di chiedere nulla, le sorelle incaricate del guardaroba hanno provveduto a rivestirmi a nuovo, anzi se protestavo mi spiegavano: «Non vorrai mica che ti mandiamo in parlatorio dal Vescovo con le toppe nell’abito!». E che male c’è in tutto questo? Ma l’autore dell’articolo conclude: «Sono esempi che possono apparire sconcertanti e difficilmente credibili per chi vive in Congregazioni maschili, e di fronte ai quali ci si può limitare a sorridere. Purtroppo per alcune suore questa è la realtà quotidiana: una realtà che per lo più non possono far conoscere, perché non sanno a chi rivolgersi, o per paura di ritorsioni».
Ma forse il massimo dell’ingenuità (non vogliamo pensare a malizia) l’articolo lo raggiunge quando “svela” il segreto più grande: le superiori vanno in vacanza! Mentre le povere suddite soffrono. Le superiori in questione vanno forse in crociera? Mi limiterò qui a dire l’esperienza di tutte le comunità monastiche che conosco, maschili e femminili, in cui i superiori non solo possono ma sono esortati a prendere vuoi un giorno alla settimana di silenzio e ritiro, vuoi una settimana all’anno, vuoi altra formula: ma un tempo indispensabile in cui recuperare sia un po’ di silenzio, preghiera e solitudine, sia un po’ di lectio, di lavoro intellettuale difficilmente possibile quando si è immersi nel pieno dell’attività e dei contatti cui ogni superiore di comunità deve far fronte. Sia anche, e perché no? un po’ di sonno in più e qualche passeggiata – cosa di per sé concessa anche ai detenuti. Può anche darsi che all’interno di qualche comunità questo abbia suscitato delle critiche. Da noi è possibile a ogni sorella prendere questi tempi, e se qualcuna critica, si tratta di quelle persone che non sono in grado di usufruirne perché non sanno come gestirli e preferiscono rinunciarvi. Ma vale la pena soffermarsi su questi aspetti?
Ora, nell’interesse stesso del padre Cucci e, ben inteso, di chi legga il suo articolo, vorremmo sottolineare la sostanziale poca utilità (alla causa del vero e del bene) di questa ben nota metodologia, che un tempo veniva identificata come il metodo della pattumiera.
In quale convivenza umana non si può raccogliere immondizia? (non parlo tanto di questi supposti abusi, ma della meschinità di tali lamentazioni). E va bene, dove la si raccoglie da parte di chi di dovere, per eliminarla. Ma se invece la donnetta, ad esempio, volesse raccogliere e propalare tutte le scontentezze contro il parroco? O contro il superiore, nella comunità religiosa maschile? E in qualche chiacchierata fra sacerdoti, non si potrebbe forse raccogliere qualche frecciata contro il Vescovo? Ma veniamo in campo civile: contro il dottore, il poliziotto – chi non ha sentito mai una barzelletta sui carabinieri? O il capufficio? E se poi volessimo metterci a raccogliere e rendere pubbliche le lamentazioni della moglie contro il marito o viceversa, non potremmo con successo infamare la famiglia o almeno rovinare qualche matrimonio?
Via, conosciamo tutti le pattumiere. Ma se diventano un metodo, utilizzando ciò che si è raccolto in questo modo con veste di esperto, con tono moraleggiante e con applicazioni generalizzate, possiamo facilmente screditare qualsiasi tipo di categoria.
La provocazione di questo articolo ci sollecita a parlare infine di un argomento molto delicato, che abbiamo in pectore da tempo: l’attuale situazione nella Chiesa delle comunità di claustrali.
Perché tanto accanimento, e tanto poco seriamente motivato, sulle comunità femminili? Perché negli ultimi anni si chiudono a centinaia? Si dirà: perché non ci sono più le condizioni per mantenerle aperte.

E qui dobbiamo approfondire l’argomento. La costituzione apostolica di papa Francesco sull’argomento, Vultum Dei Quaerere, pur essendo evidentemente scritta anche allo scopo di aiutare un rinnovamento, esprime più volte la più grande stima della Chiesa per le vocazioni e i carismi contemplativi: all’atto pratico, come si sta dimostrando questa stima?
Sembra piuttosto che nei confronti delle contemplative si manchi del più elementare rispetto della persona, emanando decreti e intimando soppressioni senza nemmeno consultarle, troppe volte, sulla propria sorte. Talvolta i metodi usati dai superiori e dai Commissari sono brutali e intimidatori. Qui siamo costrette a porci una domanda: da che parte si collocano, gli abusi di potere?
Papa Francesco ci richiama spesso all’attenzione alle fasce più deboli, marginali nella società, agli ultimi. Se guardiamo al corpo ecclesiale oggi, difficile trovare comunità più deboli e spesso marginalizzate di quelle claustrali. Sappiamo per lunga esperienza che se una ragazza oggi (ma un oggi che data da almeno 50 anni) manifesta al padre spirituale il desiderio di entrare in monastero o in convento, viene vigorosamente dissuasa - salvo poche eccezioni.
Le comunità piccole, soprattutto se composte da anziane, sono realmente le più indifese e prive di potere. La costituzione apostolica Vultum Dei Quaerere invita a prendersi cura di queste situazioni, ma chiede prima di tutto di iniziare processi per aiutarle a riprendersi, rivitalizzarle. L’articolo 8, primo comma, della disposizione conclusiva è chiarissimo a questo proposito: «All’autonomia giuridica deve corrispondere una reale autonomia di vita, che significa: un numero anche minimo di sorelle, purché la maggior parte non sia di età avanzata; la necessaria vitalità nel vivere e trasmettere il carisma; la reale capacità formativa e di governo; la dignità e la qualità della vita liturgica, fraterna e spirituale; la significatività e l’inserimento nella Chiesa locale; la possibilità di sussistenza; un’adeguata struttura dell’edificio monastico. Questi criteri vanno considerati nella loro globalità e in una visione d’insieme». Conosciamo casi di comunità piccole ma vivaci, con sorelle di tutte le età, che da anni, nel più diligente ascolto delle direttive della Chiesa, lavorano alla propria rivitalizzazione e hanno raggiunto molti degli elementi qui menzionati; ma questa valutazione non è stata fatta da nessuno: contato il numero delle sorelle, è arrivato il decreto di soppressione. Dunque, l’articolo 8, primo comma, non è stato applicato. Perché?
Il secondo comma dello stesso articolo recita: «Qualora non sussistano i requisiti per una reale autonomia di un monastero, la Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica valuterà l’opportunità di costituire una commissione ad hoc formata dall’Ordinario, dalla Presidente della federazione, dall’Assistente federale e dalla Abbadessa o Priora del monastero. In ogni caso, tale intervento abbia come obiettivo il mettere in atto un processo di accompagnamento per una rivitalizzazione del monastero, oppure per avviarne la chiusura». Conosciamo molti, troppi casi in cui questa commissione non è stata istituita; bensì si sono presentati senza preavviso due commissari con un decreto di soppressione. Se si chiedono spiegazioni, nessuna risposta. Perché? Anche in questo caso, quanto disposto dal Papa viene fortemente alterato. Il terzo comma recita: «Questo processo potrebbe prevedere anche l’affiliazione ad un altro monastero o l’affidamento alla Presidente della federazione, se il monastero è federato, con il suo Consiglio. In ogni caso la decisione ultima compete alla Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica». Conosciamo almeno un caso in cui l’affiliazione è stata chiesta e concessa con procedimento del tutto regolare; subito dopo è stata annullata senza alcuna spiegazione, e sostituita dall’arrivo dei soliti commissari con in mano il decreto di soppressione. Perché?
Allo stato attuale delle nostre conoscenze, possiamo solo dire che se Vultum Dei Quaerere è un documento ben fatto e completo, che possiamo ricevere con gratitudine – pur precisando che alcune parti si adattano meglio a certi carismi e alcune ad altri, ma ci sembra che con un po’ di ascolto e buona volontà potrebbe essere bene accolto da tutte – nella sua parte dispositiva non viene correttamente applicato.
Cor Orans, il documento applicativo, delinea una situazione delicata e può essere usato bene e anche male. Al momento sembra sia usato male.
Sembra che sul desiderio di aiutare le comunità, quale espresso dal documento pontificio prevalga quello di chiuderne il più possibile, in fretta e furia. Questo modo di agire potrebbe suscitare i sospetti peggiori, quali il fine di recuperare un patrimonio materiale sfrattando le monache. Evidentemente tutto questo non fa bene a nessuno.
Come conclusione provvisoria vogliamo lasciare questa: Se si denunciano gli abusi dei superiori, bisogna farlo a tutti i livelli; non si possono soltanto colpire quelle dell’ultimo gradino, le più deboli, le più povere, infamandole per poi sopprimerle più facilmente. E’ un discorso difficile, ma doveroso davanti a Dio, proprio perché vogliamo difendere gli ultimi, o le ultime. E’ tipico delle dittature moltiplicare i delitti da colpire negli strati più inermi del popolo, con poteri assoluti e insindacabili che si rafforzano sempre più. E ci dispiace. La Chiesa non è né dittatura né democrazia, è, deve essere, comunione.

Sr. Maria Nives Colle

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