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William Congdon 1912-1998 Analogia dell’icona

Autore:
Roda, Anna
Fonte:
CulturaCattolica.it ©
«Ormai senza cercar ispirazione da altra fonte dipingo sempre il Crocifisso...»

Dal 3 marzo fino al 29 maggio è possibile vedere, presso il Museo Diocesano di Milano, una suggestiva serie di quadri dell’americano William Congdon (1912-1998) dal titolo Analogia dell’icona.
Non si lasci spaventare, il visitatore, da un titolo così strano e un po’ enigmatico. La spiegazione si può trovare nell’introduzione al catalogo di mons. Crivelli, dove si può leggere: «la sua storia di fede, caratterizzata dalla conversione al cristianesimo avvenuta ad Assisi nel 1959, segna talmente la vicenda artistica del pittore dell’action painting da obbligarci a un’attenzione specifica alla sua dimensione religiosa e sacrale. Religiosi sono infatti i soggetti che lui pone nei dipinti, ma sacro è il mistero che in essi adombra…»
Tutta la pittura di Congdon respira di un afflato religioso, dagli inizi della sua ricerca pittorica ed esistenziale fino ai quadri della fine della vita, nei quali, anche se temperata da una certa e pacata lievità ancora gridano un’inesauribile attesa.
La mostra, ritmata da testi dell’autore, percorre tutta la sua parabola artistica, dando però più spazio alla numerosa serie di Crocifissi che negli anni ’60 e ’70 ne occuparono la ricerca pittorica.
Nato in una famiglia della aristocrazia industriale del New England, fin dai tempi dell’università frequenta corsi di pittura, un’attività che non abbandonerà nemmeno durante la partecipazione al secondo conflitto mondiale, con la quale testimonierà la desolazione e l’orrore del lager di Bergen Belsen.
Con il ritorno in America matura in lui la decisione di trasferirsi a New York; così scrive Congdon: «ritornando dalla guerra alla ricchezza degli Stati Uniti non ho più potuto sopportare la vita né le cose della vita: dovevo cancellare ogni oggetto per creare la possibilità di una nuova vita… con un ferreo scarabocchio d’inchiostro su cara bagnata volevo cancellare l’eleganza vittoriana della mia origine».
Risultato di questa prima produzione sono tavole di vedute di New York, in cui si percepisce, grazie alla particolare tecnica del dripping e delle forti incisioni sul colore, la tensione tragica del pittore e la percezione di una distruzione in atto che distrugge uomini e cose. In Destroyed City (1949) (Figura 1) lo spazio per il dato descrittivo è ormai ridotto al minimo; la composizione si semplifica scandita in due aree di colore giustapposte: il cielo e la terra e, fra le due masse, il disco scuro del sole, come una macchia da cui si dipana il dripping dell’inchiostro. La città è una massa chiara invasa dallo sgocciolare dell’inchiostro nero, mentre il pigmento biancastro è inciso e graffiato. Il reticolare creatosi non è rigidamente geometrico, ma segue linee imprecise e convulse: New York smarrisce i suoi connotati e diventa una «City» per antonomasia.
Ma la permanenza a New York non dura molto tempo. Il pittore prende uno studio a Venezia nella primavera del 1950. Comincia da questo momento in poi un viaggio alla ricerca della salvezza nei simboli redentivi del passato, un ancorarsi nella memoria e nelle tradizioni delle grandi civiltà antiche, occidentali ed orientali, nel tentativo di ritrovare se stesso e così riappropriarsi della realtà contemporanea.
«Viaggiavo rapidamente e costantemente cercando nei simboli redentivi degli altri la salvezza… Ogni quadro, fatto con grande rapidità e intensità, era per me come un salvagente per l’uomo che affoga».
Di questa seconda tappa abbiamo le numerose tavole di Piazza San Marco, tanto che qualcuno ha paragonato la suggestiva e personale produzione del pittore americano con quella ugualmente numerosa di Turner. In Piazza San Marco (1957) (Figura 2) notiamo centralmente un trapezio di luce che dalla basilica fuisce e inonda la piazza, quasi che dalla chiesa si sprigioni una luce che tutto invade ed illumina, accanto trasfigurato il campanile come un’asse terrestre attorno a cui ruota la terra e tende verso il cielo. Le ali delle Procuratie sono investite dalla luce e dal movimento rotatorio, effetto reso dal bianco e dal nero che le delinea e delimita.
Altri luoghi visitati in questi anni sono: la Grecia, Istambul, i templi indiani, il Taj Mahal, Parigi. Nella capitale francese dipinge Eiffel Tower 3 (1955) (Figura 3) ritratta con audaci scorci di sottinsù. In questa tavola il punto di osservazione è situato al di sotto delle grandi arcate che formano il primo stadio della torre; queste si aprono in corrispondenza di ciascuno dei quattro lati con una singolare asimmetria che rivela la tensione quasi organica della struttura architettonica. La massa della costruzione presenta un fitto lavoro d’incisione nella scura e spessa pasta del colore, mentre spatolate sul fondo creano la densità del cielo e dell’atmosfera.
Agli inizi del 1955 compie un viaggio in Messico, visita poi le oasi del Sahara e nel febbraio del 1957 si ferma per un mese ad Antigua, in Guatemala.
Queste tappe segnano un ulteriore approfondimento della riflessione pittorica ed esistenziale di Congdon: «il divino spunta dove vuole, e quindi anche nella natura e il deserto mi è sembrato così stupendo perché sono talmente consapevole delle barriere che l’uomo costruisce contro Dio. Il piede nel colore è l’impronta nella sabbia è il viandante nel deserto. È il passo dell’intruso dell’uomo di città – nella casa del Nomade; della mente occidentale nella fede di un altro». Con queste parole del pittore presentiamo Sahara 12 (1955) (Figura 4): al centro dell’oasi, vista dall’alto, campeggia l’orma di Congdon, quasi a testimoniare la propria presenza sulla tavola, una ricerca di identità fisica, materia connotata anche dall’uso di sabbia e nescafè per rendere ancora più materia e concreta l’esperienza della pittura.
Guatemala 7 (Dying Vulture, 1957) (Figura 5) dipinto ad Antigua conclude questa tappa del viaggio. Protagonista l’avvoltoio morente tutto raccolto in una grande massa informe nera, solo il becco risalta al centro della «testa fragile e trasparente». La riflessione pittorica sugli avvoltoi sarà la premessa importante per il tema del Crocifisso.
La sezione più ampia della mostra è dedicata ai Crocefissi.
«Cosa è successo? Qualcuno mi domandò. Semplicemente che Dio ha tirato l’allarme del mio treno, risposi, e mi ha fatto scendere ad Assisi e andare alla Sua casa dove mi avrebbe data l’ultima possibilità di salvezza… come un bambino si dà alla madre io non pensavo che ad arrendermi alla Salvezza della Chiesa… nella misura in cui Cristo aveva salvato la mia vita dal naufragio e adesso era la mia Verità, la Sua figura cominciava a prevalere su qualsiasi altra fonte di ispirazione… l’incontro con Cristo mi fa scoprire che il suo dramma di croce è pure mio» e in un altro punto «il soggetto Crocifisso come soggetto che contiene tutti gli altri, per me. Soggetto che mi è sempre, ad ogni momento, disponibile. Non ci sono problemi o momenti particolari per il Crocefisso. Questo grande conforto perché è il soggetto davanti al quale io sono totalmente libero. Non devo più preoccuparmi di altro».
Dalla conversione del 1959 emerge nella pittura di Congdon la figura umana e inoltre si inaugura un tema sul quale l’artista tornerà con insistenza per circa vent’anni, realizzando più di un centinaio di Crocefissi. Nella trattazione del tema però il pittore si allontana da ogni canone tradizionale, rivivendo con moderna sensibilità la sofferenza di Gesù. Innanzi tutto la croce scompare, confusa sul fondo scuro dal quale emerge, bianco ed esile, il corpo martoriato del Cristo, come in Crocefisso 1b (1960) (Figura 6). Le dense spatolate, tipiche dell’Action Painting, rendono con efficacia le membra del Sofferente, il cui corpo non presenta particolari annotazioni anatomiche, tranne la sottolineatura della cassa toracica e del capo inclinato, secondo la tipologia della inclinatio capitis. Questa ripresa scritturale è il momento centrale di quella “figurazione” dell’immagine di Cristo che verrà poi ulteriormente sviluppata.
Crocefisso 46 (1969) (Figura 7) viene dipinto forse a seguito della morte prematura dell’amato fratello Gilbert, infatti il carattere luttuoso del Crocefisso è sottolineato dalle tonalità violacee e dal taglio particolare del soggetto, il cui capo diviene punto centrale sull’asse obliquo delle braccia tese.
Si perviene man mano ad una semplificazione ed essenzialità estreme, come testimonia Crocifisso 90 (1974) (Figura 8): la figura non ha più articolazioni anatomiche, il tutto è una larva, quasi il bozzolo di quella nuova creatura che esploderà con la resurrezione. Anche il rapporto cromatico è ribaltato: corpo scuro, fondo luminoso. Il corpo di Cristo è dipinto con una forte tensione verticale, accentuata dal suo dilatarsi nella parte superiore, mentre il restringersi in basso della massa forse allude allo scorcio prospettico dell’alto in basso, in analogia con il celebre Crocifisso di san Giovanni della Croce.
«Questi frammenti di campi in qualche modo cominciano a formare un Volto…»: dal 1982-83 Congdon continua a risiedere pressoché stabilmente nello studio di Gudo Gambaredo, nella bassa milanese, accanto ad un monastero benedettino. Lavora intensamente negli ultimi anni a diversi temi legati sempre al paesaggio lombardo, ai campi che poteva vedere dalla sua casa. In questi anni l’artista recupera il gusto per il colore, per le campiture percorse da sottili trame, in cui la pace raggiunta, anche nelle tavole di piccole dimensioni, rivela sempre la forte tensione dell’animo, sempre in ricerca, sempre in attesa.
Campo di orzo (1982) (Figura 9): qui il tema dei campi è reso con rigore, simmetria ed equilibrio dei rapporti spaziali e tonali; si noti la doppia banda centrale del canale-sentiero che si erge come una colonna, quasi a sorreggere l’architrave formata dalla banda del cielo, in alto. Il colore verde della banda destra è steso con il pennello per creare l’effetto dell’ondulazione e della cangianza dell’orzo.
Neve 10 (1985) propone una visione invernale della campagna; le due bande orizzontali separate da una sottile linea di demarcazione marrone e altre sottolineature verticali da cui erompe una tratto curvo che crea movimento nell’apparente fissità dell’insieme.
Giungiamo così all’ultimo quadro dipinto da Congdon Tre Alberi (Venerdì Santo, 10 aprile 1998) (Figura 10): tre alberi, due gesticolanti, il terzo quasi conficcato a terra, contro un cielo rosa ed arancio secondo accostamenti cromatici del tutto insoliti per la tavolozza dell’artista; questi alberi sono autentici personaggi di un dramma che rimbalza dall’uno all’altro, alla presenza e sotto lo sguardo di un disco nel cielo, che potrebbe essere un sole scialbo o la luna di un’alba luminosa e silente.

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