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Essere reazionari

Autore:
Sciffo, Andrea
Fonte:
CulturaCattolica.it
Reazionario è un aggettivo che atterrisce: nessuno vorrebbe mai sentirselo attribuire. Da qualche anno, però, bisognerebbe osservare che i veri reazionari (cioè, coloro che reagiscono al nuovo, reprimendolo) sono quanti un tempo si dicevano rivoluzionari. O meglio, adesso essi sono dei conservatori di un potere acquisito e impediscono che i veri innovatori inaugurino il nuovo: ciò è evidentissimo nel campo della scuola e della cultura...
Pensavo questi strani pensieri una domenica mattina, spalancate le finestre della camera, ecco la felice veduta del giardino condominiale: prato, pini silvestri abbastanza in gamba, rampe dei box mimetizzate tra agrifogli e ortensie e forsizie. La differenza dai giorni feriali era la quiete foriera di niente: vedo pochi anziani assonnati andare alla messa, giovani poco assennati che ritornano incolumi al letto dopo una notte balorda. Verso le dieci, famigliole in bici si recheranno al parco.
Il desiderio di quiete, ristoro, festa è peraltro un barlume di civiltà che si conserva malgrado il Novecento e nonostante il Novecento: l'incolonnamento di auto ogni weekend mostra come ognuno percepisca di essere creato ad altro, che non il ritmo dell'iperproduttività.
Osservatorio privilegiato è la domenica in città, dies dominica, "giorno del Signore": riuscirà questo brandello di quotidianità-non-quotidiana a risollevare le sorti delle nostre vite? Daremo udienza alla voce che in esso sempre risuona? A giudicare dai media, scuole e università, la risposta dovrebbe essere sconsolata: "no". Lo speaker dei tempi postmoderni tutto inghiotte nella grigia polpa insignificante, tra spot pubblicitari e talk-show.

Tra quindici anni, tuttavia, l'attuale generazione di intellettuali "radical-liberal" sarà estinta. Riemergeranno i testimoni, uomini e donne autentici, i santi e, perché no, i pensatori veri dell'epoca oscurata dal XX secolo. Riappariranno anche i reazionari, come quel vecchietto che adesso svolta l'angolo della via, col cane al guinzaglio, e attende presso l'aiola scambiando due parole con una nonna coi nipotini per mano.
Schmitt, Jünger, Gomez Dàvila furono reazionari, e all'apparenza si presentarono ai loro contemporanei in veste di distinti signori in abito scuro, i capelli canuti, lo sguardo penetrante. Ma, aperti i loro libretti, un tifone tropicale ci investe: scopriamo che ciò che si studia, si stampa, si insegna non è vero!
Carl Schmitt (1888-1985), il maggiore giurista tedesco nell'epoca del nazionalsocialismo, ebbe intuizioni geopolitiche in tema di filosofia del diritto valide tutt'oggi. Nel suo Ex captivitate salus (Adelphi, '93) raccolse riflessioni dure e toccanti, dal periodo di prigionia seguente il processo di Norimberga: è la sapienza della cella, la libertà intellettuale di chi sia privo della libertà fisica. Ovviamente, ne riceviamo un'immagine della Germania nella Seconda Guerra Mondiale del tutto diversa dallo stereotipo dei giudizi, già fatti, sui movimenti totalitari del Novecento: essendo falsi, tali giudizi impediscono la comprensione piena dei fenomeni e ingenerano reazioni di rigurgito, poiché quando si nega la verità sorge una risposta violenta. Ma Schmitt pronunciava alcune verità come "le vainçu écrit l'histoire": che "è il vinto a scrivere la storia". E ripropose le idee di Tocqueville e Donoso Cortès per capire la filosofia politica del presente.
Ernst Jünger (1895-1998) fu scrittore e valoroso ufficiale tedesco durante i due conflitti. Il suo Trattato del ribelle (Adelphi, '90) giunge all'ultima pagina tutto d'un fiato: è l'ingresso, infatti, nel Walgang, il "passare al bosco", il gesto di "quei singoli che, nei periodi, magari anche lunghi, di puro dominio della forza, pur con notevole sacrificio personale conservano la nozione del Diritto". Interessanti sono anche il suo romanzo fantapolitico Eumeswil (Guanda, 2001) e la bella raccolta di saggi Il cuore avventuroso (Guanda, 2001).
Naturalmente non è un caso, disse l'autore, "che non appena il nostro sguardo si posa commosso e affascinato su fiori e alberi, subito cominciamo a liberarci da tutto quanto ci tiene avvinti alle cure… Qui troviamo il giardino dell'Eden, i vigneti, i gigli, il granello di frumento delle parabole cristiane".

Gomez Davila (1913-1994), colombiano, spese i suoi giorni nella casa-biblioteca di Bogotà, laddove collezionò oltre trentamila volumi - tra i quali eloquentemente non v'erano opere del connazionale Garcia Marquez - dedicandovi uno studio ininterrotto e amorevole. Come un'ape distilla miele, condensò la sua vasta erudizione in un'opera tutta composta di note e brevi aforismi: si veda In margine a un testo implicito (Adelphi, '01).
Dall'idea geniale di annotare centinaia di escolios (note a margine, appunti, glosse) a un testo invisibile, irreperibile, celato, nacquero frasi con "la durezza della pietra e il tremolio delle foglie"; esse forniscono il commento, non il brano da commentare. Per stile e scelta degli argomenti, Gomez Davila fu il terzo tra Schmitt e Jünger: avversario delle banali promesse del Progressismo, del socialismo/comunismo, dell'incultura liberal-borghese, sembrerebbe un mero reazionario; egli invece non fece parte di un mondo che perisce: "Io prolungo e trasmetto una verità che non muore" (Escolios II, 500).
Le sue bordate contro la modernità "che ha sostituito il mito di una passata età dell'oro con quello di una futura età della plastica" o contro la democrazia per la quale "più gravi sono i problemi e maggiore è il numero di inetti che chiama a risolverli", non sono frecciate fini a se stesse: aprono un lucido sentiero nel caos contemporaneo, il disordine mentale e spirituale. Il compito di Gomez Davila sconfina nella vocazione a illustrare verità eterne, scomode: poiché "celesti sono le gerarchie. E' all'inferno che tutti sono uguali".
I sentieri di Schmitt, Jünger e Gomez Davila sono scandalosi, interrotti, ripugnanti alla sensibilità del politicamente corretto: pure, conducono in porto. Addirittura, possono condurre nel porto quieto e drammatico della Chiesa: si vedano le tappe jungeriane verso i Sacramenti in Heimo Schwilk, Il sogno dell'Anarca (Herrenhaus, 1999), un libretto che rivela l'approdo alla fede e ai sacramenti di uno scrittore controverso come Jünger, edito da una casa editrice raffinata, sorta qualche anno fa a Seregno.
Anche nella filosofia daviliana la religione rivelata corona la realtà dell'universo, "non spiega nulla ma complica tutto"; perché ogni anima può affermare che "il cattolicesimo è la mia patria" e lasciarsi sedurre dalla "meravigliosa insolenza delle sue dottrine" perché Dio "è la sostanza di cui io vivo". E si potrebbe continuare a lungo, di citazione in citazione.
Se dunque è vero che la letteratura muore non quando nessuno scrive ma quando tutti scrivono, volgiamoci alla silenziosa lettura dei maestri silenziosi: un gesto vietato all'uomo che, ahilui!, "si sente tanto individuo unico quando fa le stesse cose che fanno tutti".

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