Bighin, Piergiorgio - Rosso fuoco laguna
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Michele e Giovanni, ragazzi, inseguiti dalla minaccia di morte del bando Graziani, si nascondono nella loro città di mare come nel ventre di una misteriosa balena. E sono mesi di notti insonni e veglie, di passi felpati e orecchie tese... di parole silenziose, proprio come quando si naviga, e si è attenti al più piccolo segno, per sperare... Il mistero del tempo si staglia contro il cielo di Chioggia, altrettanto indefinibile e largo. Sta a ciascuno di noi non deporre la ostinazione, e rimanere ancora, come in quelle remote notti di guerra, attento: ai minimi segni che la realtà ci concede, velando e svelando, annunciando ciò che non osiamo nemmeno sperare.»
(Marina Corradi, Prefazione a Rosso fuoco laguna)
«Essere naviganti è sempre restituire ciò che si è visto e sentito, ciò che si è toccato sperando che chi ascolta abbia lo stesso codice, cioè che abbia navigato a sua volta.»
(Piergiorgio Bighin, Rosso fuoco laguna, pag. 85)
In meno di cento pagine, un mondo. E’ la prima cosa che ho pensato quando, d’un fiato, ho letto Rosso fuoco laguna di Piergiorgio Bighin, edito da Marietti.
In questo tascabile, che tascabile è per davvero e lo puoi portare con te, e regalare agli amici, nell’incontro tra la piccola e la grande storia il lettore coglie la preziosità di ciascun uomo, anzi, di ciascun dettaglio. Sì, perché Rosso fuoco laguna è innanzitutto educazione allo sguardo che nulla trascura.
Chi conosce l’autore non fatica a comprendere ciò che intendo. Piergiorgio è così. Insegnante, psicologo-pisicoterapeuta, presidente dell’Opera Baldo, che si occupa di disagio minorile, quando parla dei “suoi” ragazzi e/o della vita ha esattamente questo sguardo, attento ai dettagli, attento ai segni. Chi lo segue nei social lo sa: un pezzo di legno arenato sulla battigia, un’impronta sulla sabbia, una vela lontana diventano foto, riflessioni, racconti. Evocano. Perché, lo scrive anche in Rosso fuoco laguna, riprendendo Montale, «tutte le immagini portano scritto: / “più in là”».
E così, accanto alla storia degli uomini: i due giovani in fuga, i loro incontri, il ritorno a casa... insieme alla Provvidenza, che manzonianamente è Presenza discreta e fil rouge, sono almeno altri due i grandi protagonisti di questo romanzo: Chioggia, la sua Chioggia, e il mare, il suo mare; entrambi, metafore della vita.
Di pagina in pagina senti l’eco dei testi e dei grandi autori che si leggono a scuola: Goldoni delle calli e i campielli e le Baruffe chiozzotte, il Verga dei Malavoglia, i versi più belli di Allegria di naufragi di Ungaretti, il mare di Saba... Su tutti, la figura di Ulisse, desideroso di “divenire del mondo esperto/ e de li vizi umani e del valore”.
C’è fama di vita e di un “oltre”, in queste pagine dense: uomini cui tutto parla, alla ricerca, sempre, di “virtute e conoscenza”. Del resto, chi va per mare è consapevole che «il sale è saggezza di chi sa che la barca non è sua, ma solo prestata per un viaggio che può essere lungo o breve e si può anche interrompere improvvisamente. Chi può mai dire che non s’alzi un’onda più grande e ti inghiotta...». Ogni attimo va accolto e gustato, i sensi sempre vigili, all’erta.
Non svelerò di più e non dirò nulla del titolo, ma sono preziose, le ultime dieci pagine del libro. Da leggere e rileggere come educazione paziente della vista, del tatto, del gusto, dell’olfatto, dell’udito... e pure del “sesto senso”, la ricerca dell’ignoto: sono sensi buoni, tutti, e rendono umano l’uomo, perché gli permettono di cogliere «la bellezza misteriosa che muove il sole e l’altre stelle».