Chesterton, Gilbert Keith - Robert Louis Stevenson
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In questo saggio su Robert Louis Stevenson, Chesterton si propone di ridare giustizia ad un autore inglese troppo spesso oggetto di critiche ingiuste e parziali, che non ha tenuto conto di tutti i fattori reali della vita di Stevenson.
Il punto di partenza di Chesterton, infatti, si oppone nettamente a quello della maggior parte dei critici letterari, i quali partono dalla biografia dell’autore per spiegare i libri, mentre Chesterton preferisce partire dai libri per comprendere e ricostruire la biografia stevensoniana.
Chesterton sostiene che Stevenson abbia avuto un sussulto di vitalità e si sia volutamente e coscientemente distaccato dalla moda letteraria del suo tempo e questo gli sarebbe costato il titolo di autore superficiale e stravagante; Chesterton spiega che l’autore dell’Isola del tesoro abbia abbandonato “l’art pour l’art” per abbracciare la vita nella sua freschezza e molteplicità, reagendo così al decadentismo del tempo influenzato da Wilde e da Schopenauer.
Con le sue opere Stevenson si mostra scettico nei confronti del nichilismo della letteratura e della filosofia della sua epoca; egli preferì di gran lunga il teatrino di Skelt della sua infanzia,la moralità dei bambini e ciò emerge palpabilmente dal suo stile essenziale, preciso e conciso. Questo perché dentro di sé Stevenson perseguì un mondo di piccole cose, cercando e trovando una sorta di mistero, di essenza spirituale dentro la realtà, malgrado fosse lontano dalla religiosità puritana inglese. Estraniandosi da se stesso, Stevenson sapeva cogliere il meraviglioso, con lo stupore di un bambino che gioca con la sua fantasia ed i colori vivi ed accesi delle marionette di Skelt.
“I fatti erano le mie sensazioni” così Chesterton cita Stevenson contro un romanticismo semisuicida alla ricerca di ideali mai raggiunti fino in fondo, le cui nostalgie si mescolavano pateticamente ai sorsi di assenzio nei caffè letterari.
Quella di Stevenson, a parere di Chesterton, era una sfida sincera e quindi, morale; sfidò la religiosità rigida ed opprimente del Puritanesimo, la perversione segreta e nascosta della sua gente, (Dr Jekill e Mr Hyde) il conformismo tranquillo e comodo della società londinese, sfidò il gusto letterario dei romanzieri, e non di meno la sua malattia, che lo costrinse a girovagare fino ai mari del Sud, dove trovò la morte.
Stevenson tentò di guarire lui e di sanare l’ipocrisia del suo tempo con la purezza della verità, magari troppo cruda ma certamente una cosa seria, come la sua fantasia, come fu un caso serio per lui il paradiso perduto dell’infanzia, quando divenne uomo; ecco allora le forme nitide e precise delle sue immagini, inconfondibili, lo stile veloce ma completo, senza bisogno di ripetizioni o di ritorni, i colori energici, i rumori metallici delle spade ecc…
Stevenson fu alla ricerca costante della salvezza personale ma anche sociale.
Ovviamente Chesterton non si smentisce quanto ad obiettività: infatti sa riconoscere e scorgere alcune debolezze del protagonista del suo libro, quali un’economia di dettagli riguardo ai personaggi che lo induceva a sopprimere tutto ciò che gli pareva irrilevante, un certo culto della paura, un realismo così rapido da parere quasi irreale agli occhi dei vittoriani del tempo (Dickens, Thacheray). Ma sa benissimo che la sua non era da confondersi con la superficialità, ma che nascondeva qualcosa di valore, come la profondità della coscienza, la serietà morale della vita. Benché alle volte pittoresco, non vi era niente di frivolo in lui; slegato dagli schemi rigidi e dalle convenzioni vittoriane, dalle visioni statiche del suo mondo, Stevenson ricercava ancora la felicità, perché sapeva che essa c’era e quindi era ancora possibile, contro il nichilismo suicida del tempo. Fuggiva dal materialismo della rivoluzione industriale e dal puritanesimo per un impulso alla libertà legato all’infanzia, una sorta di giovinezza del mondo, dove sicuramente fu in grado di ammirare, stupito, la beatitudine dell’alba.