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D’Ambrosio, Gianfranco - La linea delle risorgive

Fonte:
CulturaCattolica.it
Lineacultura

“Cercar nella vita ciò che autorizza la parola, cercar nella parola ciò che rivela la vita”: così Mario Apollonio sintetizzava mirabilmente la vocazione poetica di Ghœthe. Se è lecito paragonare senza eccessivo rischio le cose grandi alle piccole, similare sembra essere l’atteggiamento di D’Ambrosio di fronte alla sua poesia: una ricerca nella vita che ne riveli il mistero, un lavoro poetico che testimoni ed esprima quella ricerca anzi che la prosegua, come se la poesia fosse un prezioso strumento di indagine. E la gioia temperata che con evidenza si legge nei suoi versi, non può riferirsi ad altro che al disvelarsi del cuore del reale, di quel segreto che ogni uomo, coscientemente o meno, desidera come massimo bene. Perciò la poesia è una Rivelazione, una pace della verità, uno splendore delle profondità, temperata soltanto dall’inadeguatezza umana della ricerca e dalla pochezza della libertà nell’aderire. In tal modo si spiegano i momenti di tristezza, pur presenti, ma di una tristezza non mai rassegnata, che diventa grido, dolore dell’assenza e nostalgia della presenza, “urto del desiderio originale” che rimotiva il cammino. Le poesie di D’Ambrosio nascono da una serie di avvenimenti gratuiti e scattano nell’ispirazione non appena qualche aspetto della realtà incomincia a farsi trasparente e a parlare di quell’oltre che solo può dare spiegazioni plausibili all’esistenza. Possono essere fatti di vita, incontri di persone, stupore per le meraviglie della natura, o anche fatti di morte, ma in cui la morte fa parte di una definizione della vita e costituisce essa stessa un’avventura, quella che condurrà faccia a faccia con l’oggetto del desiderio. Persino le provocazioni letterarie agiscono in simile modo sulla sensibilità del nostro poeta: le letture care da sempre si mutano in profezia dell’essere, come a “mutare in inno l’elegia”, come a realizzare in canto profetico di un destino eterno la percezione terrestre della bellezza e della drammaticità. Infatti in D’Ambrosio il bello può avere un nome, può uscire da una indefinitezza estetica e ambigua e assumere la veste dell’inno: una veste mite, allusiva, solo raramente dichiarata non ideologica e prefigurata in anticipo, ma conquistata con sofferenza, con discrezione e con pudore, come per un sentimento ultimo di indegnità, pur misto a gioia. Una sofferenza anche stilistica, nello sforzo di scoprire nelle parole una musicalità che renda sensibilmente il mistero della loro interiorità, un continuo rimando di risonanze, una eco che giunge da molteplici punti del reale e che tende a tradursi nel molteplice gioco dei nessi fra significanti e significati. In sintesi quella di D’Ambrosio ci sembra una poesia che giunge a coniugare classicità e modernità, vigore di stile e tensione appassionata di ricerca, musicalità e pregnanza di significato, accoglienza di una tradizione e novità di esperienza.

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