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Hadjadj, Fabrice - Come parlare di Dio oggi?

Autore:
Locati, Paola
Fonte:
CulturaCattolica.it
Anti-manuale di evangelizzazione,
Edizioni Messaggero Padova, € 13,00.

Questo libro - davvero sorprendente e gustoso, pieno di sana ironia, imperdibili metafore e forte dell’irresistibile evidenza di un sanguigno realismo - nasce dalla trascrizione di una conferenza che l’autore ha tenuto all’Assemblea plenaria del Pontificio Consiglio per i laici su invito del cardinale Stanislav Rylko. Proprio la genesi particolare del testo occupa l’Avvertenza (pp. 7-9) e ci spiega che non è stato automatico passare dal parlato allo scritto: “Tale trascrizione ... era assolutamente fedele, come dire che era assolutamente inadeguata. La ripresa letterale l’aveva resa afona: c’era tutto tranne me” (p. 7), perché “ció che volava nell’aria non ci stava sulla pagina. L’aria, in realtà, per quanto inconsistente, porta il timbro e il tono dell’oratore, lascia intravedere il gesto che l’accompagna, e circola tra le persone fisicamente presenti, per cui una inspira ciò che l’altra espira.” (Ibidem).
L’oratore/autore inizialmente sembra rassicurarci: “... sono perfettamente padrone del mio argomento ... Del resto Dio lo conosco assai bene (abbiamo mangiato insieme non più tardi di domenica scorsa)” (p. 11). In realtà sta mentendo sapendo di mentire: proprio la nostra strutturale inadeguatezza a “parlare di Dio” accompagna tutta la trattazione e, scusate se svelo come va a finire, proprio in questa debolezza accettata e abbracciata sta la nostra forza di testimoni. E infatti poco dopo ammette: “... Devo confessare a mia vergogna di non essere affatto padrone dell’argomento, di non comprenderlo neppure. Se mai è lui che è padrone di me e mi comprende.” (p. 13).
“Come” parlare di Dio oggi? “Il come ci costringe a scendere dalle nuvole speculative astratte per metterci in rapporto con la concretezza dell’esistenza senza tergiversare.” (p. 18) e senza soccombere alla tentazione di rincorrere questo secolo hi-tech, in cui sembrano diventati piú importanti i mezzi della comunicazione che il contenuto della comunicazione stessa.
Altrettanto importante è essere ben consapoli di chi è colui al quale ci rivolgiamo: “L’indirizzo è una dimensione essenziale della parola. Quando questa non è indirizzata a qualcuno, chi parla non parla meglio di un pappagallo e chi ascolta non ascolta meglio di uno spaventapasseri (ma avrei potuto anche dire di una televisione e di un telespettatore, che sono il modello di ogni comunicazione senza destinatario proprio) ... Se non mi lascio toccare dall’altro e dal suo ascolto, allora non sto soltanto disprezzando la sua alterità, ma anche la mia stessa parola.” (pp. 21-22)
“Non esiste parola di Dio che non sia nell’oggi, visto che tale parola viene compresa solo se non la si intende semplicemente come un riportare eventi del passato, ma come una parola che ci tocca qui e ora” (pp. 23-24) e possiamo star certi che ogni “oggi” della storia contiene sia facilitazioni sia contrarietà, interroga comunque la nostra identità di cristiani, impastati con le sfide del tempo che viviamo.
“Se la intendiamo come si deve, questa parola ci lascia a bocca aperta. È la parola che dice che non siamo noi ad avere l’ultima parola. È il Nome che non vuol mai dire che il dialogo è chiuso, ma che diamo ospitalità a ciò che ci trasforma, a ciò che ci apre, a ciò che ci sorprende e ci dispone a ogni incontro. Il Nome di Dio non può renderci superbi e sufficienti, esige da noi l’umiltà di fronte a colui che si consegna umilmente ai nostri discorsi. Chi lo somministra come un colpo di mazza, non solo lo riduce a una mazzata per ’altro, ma se lo è già dato in testa da sé” (p. 29). Sempre l’autore tiene unito chi annuncia la Parola di Dio al contenuto del suo annuncio, perché si tratta di comunicare la propria esperienza di vita, che si attua nel momento stesso della comunicazione: c’è un legame imprescindibile tra testimonianza e testimone, che non va mai dimenticato, a meno di risultare non solo inadeguati (come è inevitabile che sia!), ma non interessanti, teorici e ultimamente incomprensibili.
L’autore, saggista filosofo e drammaturgo francese, che si definisce “un ebreo di nome arabo e di confessione cattolica” (è figlio di genitori ebrei di origini tunisine), è davvero riuscito a mettere nella parola scritta la stessa freschezza e comunicatività del suo parlato: leggendolo sembra di acsoltarlo! E ci ofrre anche la sua personale esperienza di convertito, raccontando cosa gli dava fastidio prima della sua conversione: “Quando qualcuno diceva ‘Dio’, mi sembrava che mettesse fine a qualsiasi discussione. Aveva introdotto con l’imbroglio un altro jolly nel mazzo di carte. Era un abracadabra, una formula magica ... Una soluzione finale all’interno di una discussione che, d’un tratto, veniva soffocata da questa parola grossa e massiccia.”(p. 28). Ma cos’è accaduto con l’incontro con il cattolicesimo? “Sono stato corretto. Questa parola [Dio] non suona più ai miei orecchi come un tappabuchi, ma come un apri-abisso ... il significante ‘Dio’ non discende da un desiderio di soluzione finale: viene dal riconoscimento di un’assenza irrecuperabile. Non sorge tanto come risposta quanto come chiamata. Dà il nome all’evidenza di ciò che mi sfugge, all’esigenza di ciò che mi supera.” (pp. 28-29). E si è fatto Uomo per me, per incontrarmi, e ha promesso di rimanere al mio fianco. Parlare di questo Dio dunque è “l’occasione di scoprire che è presente ovunque, in ogni realtà umana, nella bellezza di un corpo o di un tramonto come nel buco dei maccheroni. Per intravedere la Sua presenza, dunque, bisogna chinarsi e silenziare le parole umane.” (Dalla quarta di copertina)

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