McCarthy, Cormac - La strada
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“… il bambino:… tu non ne hai di storie allegre?
- L’uomo:… assomigliano di più alla vita reale
…invece le mie storie no.
- Le tue storie no. Infatti.
- La vita reale è molto brutta?
- Secondo te?
- Beh, io dico che siamo ancora qui. Sono successe tante cose brutte, ma siamo qui…”.
Non sappiamo i nomi di questo uomo e di questo bambino, padre e figlio, ma una cosa è certa: tra loro due esiste un legame profondissimo, una reciproca fiducia ed affezione, un’evidente autorevolezza e discepolanza, capaci di affrontare tutto, lungo la strada che porta all’oceano, circondati da un paesaggio apocalittico, dove ogni legge, emozione, ideale, forme di vita sociale sono stati annichiliti da un evento spaventoso, di cui non conosciamo l’entità e le cause. Ogni istante del viaggio dei due protagonisti è consegnato al timore di essere aggrediti da uomini ridotti allo stato selvaggio e dalla ricerca del cibo. Dentro questa lotta per la sopravvivenza, la salvezza dei due personaggi sta nello sguardo e nella parola (i dialoghi sono splendidi, ricordano, per la loro secchezza e concretezza “I 49 racconti” di Hemingway): lo sguardo, cioè, che non perde mai, sia nell’uno che nell’altro, la traccia d’umanità dolente, ma vera; la parola, perché comunica l’essenzialità espressiva delle esigenze costitutive dell’io: “… noi siamo i buoni, vero? Dice il bambino e l’uomo risponde: “ Sì, siamo i buoni”.
A suo tempo, ho preferito, di questo autore “Cavalli selvaggi” e “Oltre il confine”, ma anche questo romanzo è suggestivo ed intrigante.