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O'Connor, Flannery - Sola a presidiare la fortezza

Fonte:
CulturaCattolica.it ©
Einaudi

Torino, 2001

Pagine: 164

Prezzo: € 9.30

Sola a presidiare la fortezza: con questo titolo è uscita presso Einaudi un raccolta di lettere di Flannery O'Connor (1925-1964), scrittrice americana, di origine irlandese, cattolica del Sud degli Stati Uniti, una "fondamentalista della Georgia" come la definisce il curatore Ottavio Fatica, autrice di romanzi e racconti e saggi pubblicati in Italia da Rizzoli, Einaudi e Theoria.
Il titolo viene preso pari pari da un'espressione usata dalla O'Connor in modo scherzoso in una lettera per indicare di esser rimasta sola nella sua fattoria, dopo il ricovero in ospedale della madre per un incidente domestico.
Ma la stessa frase, fuori da quel contesto specifico, diventa in senso lato evocativa della sua condizione esistenziale di giovane donna costretta a far fronte ai colpi della vita che non fu certo tenera con lei, privandola dodicenne del padre, e lasciandola poi erede della stessa malattia (il lupus eritematoso) che l'avrebbe portata a morte precoce a soli trentanove anni.
E lei affronta questa difficile esperienza appunto con un temperamento virile, con il piglio quasi soldatesco di chi accetta di stare al posto in cui è stato messo, riuscendo persino a trovarvi un guadagno:
".....in realtà solo di recente ho capito che non si ottiene niente restando alla superficie delle cose. Come tutti l'ho scoperto a mie spese, e soltanto negli ultimi anni grazie, credo, a due cose: la malattia e il successo. Una soltanto non mi sarebbe bastata, ma l'abbinata è risultata vincente. Non sono mai stata altrove che malata. In un certo senso la malattia è un luogo, più istruttivo di un lungo viaggio in Europa, e un luogo dove nessuno ti può seguire. La malattia prima della morte è cosa quanto mai opportuna e chi non ci passa si perde una benedizione del Signore. Quasi altrettanto isola il successo, e niente mette in luce la vanità altrettanto bene. Ma da queste parti la superficie è sempre stata molto piatta. Vengo da una famiglia dove era rispettabile mostrare un unico sentimento: l'irritazione. È una tendenza che per alcuni sfocia nell'orticaria, per altri nella letteratura, per me in tutte e due le cose". (pag.77)

La O'Connor scriveva le sue missive dalla fattoria di Milledgville, vicino ad Atlanta, dove allevava pavoni e da cui si allontanava raramente proprio a causa di quella malattia che la costrinse ben presto alle stampelle limitandone la possibilità di muoversi.
Donna spigolosa, tagliente in certi giudizi, pronta a dire con chiarezza e senza alcuna reticenza ciò che pensava, Flannery si rivolgeva per lo più ad amici intellettuali, poeti e scrittori della sua cerchia, o comunque a gente del mondo editoriale.
Talvolta le capitava anche di rispondere a sconosciuti, studenti, che le si rivolgevano per esprimere i loro pareri sui racconti pubblicati dalle riviste intrecciando con loro discussioni sul suo lavoro di scrittrice; proprio in uno di questi casi iniziò un rapporto più approfondito con una lettrice non meglio conosciuta se non con la sigla A. e che divenne ben presto una sua stimata confidente. Sollecitata dalle osservazioni o interpretazioni dei suoi interlocutori, Flannery rispondeva con lettere piene di verve, sicuramente utili per capire le sue opere, ma insieme interessanti anche come testi autonomi.

Gli argomenti sono vari: si va appunto dai commenti ai racconti alla cronaca degli avvenimenti fino a toccare temi di fede o attualità (la nascente moda dei beat, il razzismo) ma nulla di più estraneo a lei del chiacchiericcio vacuo, alla moda, o dell'intellettualismo fine a se stesso.
Dentro la sua scrittura colloquiale ecco che, anche mentre sta parlando delle cose più semplici, sempre emergono giudizi netti precisi, di una lucidità impressionante che trovano nella fede le loro radici e nell'ironia e nel paradosso un'arma espressiva.

Sono lampi, quasi aforismi, riflessioni sintetiche cui l'autrice stessa guarda con una certa dose di distacco quasi a metter in guardia se stessa, prima ancora che il suo interlocutore, da un eccesso di sentenziosità: ma le sue sono sferzate salutari, osservazioni che in un attimo mettono a fuoco il vero fulcro di un problema, che indicano il giusto verso da cui affrontarlo: verso che a volte disorienta, perché è quello meno ovvio e scontato.
In esse ella dà prova di un'estrema libertà intellettuale e al tempo stesso di una piena ortodossia; è scrittrice cattolica ma nulla la irrita di più di chi si scandalizza della "brutalità" di certi suoi personaggi:
"Ne ho fin sopra i capelli di leggere recensioni che definiscono Un brav'uomo brutale e sarcastico. I racconti sono duri ma solo perché non c'è niente di più duro o meno sentimentale del realismo cristiano. Ormai non si contano gli informi animali che arrancano alla volta di Betlemme per venire alla luce: io non ho fatto che rintracciare l'itinerario di alcuni, e quando li descrivono come racconti dell'orrore, mi diverte sempre vedere che il recensore coglie sempre l'orrore sbagliato." (pag.27)

La sua vocazione di scrittrice e il suo spirito profondamente cattolico la portano a cercare una scrittura capace di " definire con esattezza le cose di Dio",(pag.48) ben attenta però a non scambiare queste "cose di Dio" con temi edificanti o con la creazione di santini e neanche con la descrizione della semplice apparenza delle cose. Flannery è convinta che nella realtà si celi il mistero di Dio, il quale sceglie i modi più impensati per incarnarsi e per farsi sentire, scombinando le carte e le pretese umane di inquadrarlo nei propri schemi ideologici, fossero pure cattolici (o presunti tali).
"La narrativa è espressione concreta del mistero: il mistero vissuto. I cattolici credono che il bene sia tutto il creato, e il male l'uso sbagliato del bene che, senza la Grazia, usiamo quasi sempre in modo sbagliato. Nella narrativa è pressoché impossibile scrivere della Grazia soprannaturale. Dobbiamo quasi arrivarci per via negativa. Quanto alla Grazia naturale, bisogna prenderla come viene: attraverso la natura. Un fatto è certo: opera circondata dal male." (pag.56)

e ancora:

"Se c'è una cosa tremenda a scrivere quando si è cristiani è che per te la realtà suprema è l'Incarnazione, la realtà presente è l'Incarnazione e all'Incarnazione non ci crede nessuno; nessuno dei tuoi lettori, cioè. I miei lettori sono quelli convinti che Dio sia morto. Almeno, io sono consapevole di scrivere per loro."(pag. 28)

Insomma dalla lettura di questo epistolario si esce arricchiti, con la certezza di aver respirato una boccata d'aria buona e lieti di aver incontrato qualcuno che davvero ci ha aiutato a riscoprire in modo nuovo cose che troppo spesso si presume di sapere.
(F.B.)

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