Tolone, Oreste - Bernhard Welte. Filosofia della religione per non credenti
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Può, oggi, una filosofia della religione d’ispirazione cristiana prescindere dal confronto con il diffuso clima nichilistico che caratterizza il nostro orizzonte socio-culturale? Primo titolare, in Germania, della cattedra di “filosofia della religione cristiana”, Bernhard Welte (1906-1983) ha cercato in tutte le sue opere -da Dialettica dell’amore a Dal nulla al mistero assoluto, da La luce del nulla a Che cosa è credere- di comprendere e fare i conti con questa, nichilistica, atmosfera in cui l’uomo dei nostri giorni sembra, più che vivere, sprofondare. Ma in che modo e con quali esiti egli ha pensato questo rapporto tra cristianesimo e nichilismo, tra ricerca di valide e sensate motivazioni per credere e negazione di ogni significatività della vita? Dedicato alla figura del filosofo tedesco, un utile contributo all’approfondimento di tali questioni viene ora offerto da un saggio monografico di Oreste Tolone, Bernhard Welte. Filosofia della religione per non credenti.
A partire da una base di pensiero (heideggerianamente) postmetafisico, Welte prende le mosse da un’intuizione di fondo: nella vita dell’uomo (Dasein) si riscontra la coappartenenza di finitezza e infinità. Da un lato, vi sono i limiti caratteristici dell’ ‘esserci umano’, rinvenibili, per esempio, nell’esperienza della colpa e della morte, del tempo e dei determinanti biologici. Dall’altro lato, risulta presente nell’uomo un desiderio infinito, un intrinseco impulso di superamento e trascendenza, teso a ciò che è sempre migliore e più alto: negli occhi di ciascuno di noi c’è sempre molto più di quello che abbiamo di fronte. Al di là dei diversi contesti e delle differenze epocali, questo dinamismo costituisce la condizione ‘trascendentale’ di possibilità che definisce l’essere umano in quanto tale, nella sua stessa natura ed essenza. Se questo è vero, da un punto di vista fenomenologico, possiamo, allora, affermare che il rapporto tra l’esserci e l’essere si presenta, originariamente, nei termini di un’apertura interessata e promettente, ovvero di una fiduciosa anticipazione di senso. L’uomo, cioè, si trova in una condizione strutturale di attesa e speranza: finiti, viviamo la vita come se avesse senso perché tendiamo e aneliamo ad un orizzonte infinito di senso. In noi abita una fiducia-pretesa incondizionata: abbiamo l’idea di come le cose dovrebbero essere. Ci portiamo eticamente dentro una misura segreta: nulla è invano. Ora, secondo Welte, è qui, a partire da questa originaria apertura che risiede la possibilità sia della fede che del nichilismo. Se essenzialmente tendiamo all’infinito, ma esistenzialmente, a causa della nostra finitezza, siamo incapaci di realizzare da noi questa aspirazione, la libertà dell’uomo può rifiutarsi di assecondare questo suo interiore desiderio e decidere di dare ad esso altra (erronea) direzione e altro (illusorio) soddisfacimento. Ecco, allora, i diversi nichilismi, eroici e rassegnati, e i diversi ateismi, negativi e critici, combattivi e sofferenti. Ecco, allora, le diverse versioni, vecchie e nuove, di scientismo e naturalismo. In ogni caso, però, di questa assoluta tensione, pur stravolta, non se ne può fare a meno: è l’infinita volontà di potenza, è l’infinito voluto dal desiderio e dalla libertà a rappresentare la radice attiva della stesso annullamento di Dio e di ogni forma di senso. Lo stesso ‘nulla’, d’altra parte, sulle tracce di Meister Eckhart, può rimandare ad un’esperienza di tipo religioso. Il nulla, quale differenza ontologica tra essere ed ente, quale negazione dell’ente, potrebbe, anzi, rappresentare, secondo Welte, l’esperienza fondamentale di Dio. Dio: ovvero una distanza, un’alterità, che rifiutando di essere ‘qualcosa’ a disposizione del pensiero, risulterebbe, appunto, l’oltre-essente, il ni-ente.
Alla fine di questo stimolante e ancor lungo percorso, rimangono tuttavia aperti alcuni essenziali interrogativi. Siamo davvero sicuri che se il nichilismo è il destino epocale dell’Occidente contemporaneo, l’unico modo di superarlo consista nell’elaborare un’ermeneutica religiosa debole e di tipo postmetafisico? Perché non dovrebbe essere possibile coniugare ermeneutica e metafisica? L’ente, nella sua (non solo heideggeriana) differenza con l’essere, potrebbe, infatti, leggersi come ‘segno’ sia ontologico che simbolico. Come tale, l’ente, in quanto contingente e in quanto evento di manifestazione dell’essere, potrebbe rinviare, dal punto di vista di un’ontologia analogico-simbolica, ad un’altra differenza, stavolta metafisico-teologica, tra l’essere degli enti e l’Essere Stesso, ovvero l’assolutezza d’Essere del mistero di Dio. Welte con acume mostra l’insostenibilità di una concezione nichilistica, necessariamente costretta a caratterizzarsi a partire da una anticipazione di senso e da un postulato incondizionato di tipo etico. Ora, proprio accettando la sfida ontologica heideggeriana, ma volgendola contro i limiti teoretici imposti da Kant, non varrebbe la pena ricordare il monito di Von Balthasar secondo il quale il cristiano è destinato ad essere, oggi, nella notte profonda del nostro tempo, il custode della metafisica?