E finalmente a San Pietro tornò la Politica
- Autore:
- Curatore:
- Fonte:
Il notevole impatto di papa Giovanni Paolo II sul nostro tempo è riconosciuto sia dai suoi ammiratori che da coloro che lo criticano. Le impronte lasciate da questo pescatore, sono ben visibili ovunque nelle nuove democrazie dell'Europa centro-orientale, nell'America Latina, nell'Asia orientale. La sua critica circa "una democrazia realmente esistente" ha contribuito a definire le questioni fondamentali morali della vita pubblica nelle democrazie e nel complesso mondo delle istituzioni internazionali. Alcuni lucidi studiosi della storia pontificia sostengono che occorre ritornare all'inizio del Tredicesimo secolo, a papa Innocenzo III, per trovare un pontificato che avesse la stessa incisiva influenza nella vita politica del tempo. Tuttavia qui sorge un paradosso: l'impatto "politico" di questo pontificato, diversamente da quello di Innocenzo III, non deriva dall'utilizzo di quelli che molti realisti riconoscono come gli strumenti del potere politico. Piuttosto, la capacità che il Papa ha di modellare la storia è stata messa in pratica attraverso diverse leve. In quanto Vescovo di Roma e sovrano del micro Stato della Città del Vaticano, Giovanni Paolo II non dispone di potere né economico né militare. La Santa Sede mantiene un'ampia rete di relazioni diplomatiche e detiene lo stato di osservatore permanente presso le Nazioni unite. Tuttavia, qualsiasi influenza Giovanni Paolo II abbia ottenuto attraverso questi canali, è evidente che il potere di questo pontificato risiede soprattutto nel carisma di persuasione morale, che viene tradotto in efficienza politica. Questa efficienza politica paradossale, raggiunta senza i normali strumenti del potere politico, è di per sé molto interessante. Essa ha anche un valore euristico, poiché ci informa sulla natura della politica all'alba del nuovo millennio. Contrariamente alle nozioni ampiamente accettate sin dal Diciottesimo secolo, l'impatto pubblico di Giovanni Paolo II suggerisce che la politica (intesa come lotta per il potere), o la finanza, o alcune combinazioni di politica e finanza, non sia l'unico, e forse nemmeno il principale, motore della storia. La rivoluzione della coscienza che Giovanni Paolo II ha avviato nel giugno del 1979 in Polonia - quella rivoluzione morale che ha reso possibile la rivoluzione del 1989 - non è semplicemente spiegabile attraverso le convenzionali categorie politiche o economiche. Le conquiste pubbliche di Giovanni Paolo II hanno fornito uno strumento d'interpretazione equilibrato ed empirico rispetto alle sfide intellettuali e morali lanciate dalle moderne teorie di politica, compreso il giocobinismo rivoluzionario francese, il marxismo, il leninismo, e l'utilitarismo. Il mondo politico non funziona nel modo in cui vorrebbero i materialisti. Alla fine di un secolo in cui è credenza diffusa che "il potere deriva dalla canna del fucile", il paradosso circa l'impatto pubblico di Giovanni Paolo II suscita, ci ricorda anche altre cinque verità: che il potere dello spirito umano può innescare un cambiamento mondiale storico; che la tradizione può costituire sia una potente forza per una trasformazione sociale, sia una radicale e autocoscienziosa rottura con il passato; che la convinzione morale può rappresentare la leva d'Archimede utile a smuovere il mondo; che la vita pubblica e la politica non sono sinonimi; e che una politica genuinamente umanistica dipende sempre da una più fondamentale struttura satellitare di associazioni libere all'interno delle quali noi impariamo la verità che ci riguarda in quanto individui e membri delle comunità.
Quindi, le conquiste mondiali di Giovanni Paolo II, proprio perché non sono state mediate attraverso i normali strumenti del potere politico, hanno contribuito a liberarci dalla tirannia della politica. Dimostrando l'effettivo collegamento tra la profonda convinzione morale e il potere politico, questo pontificato ha inoltre contribuito a conferire di nuovo alla politica la sua dignità, pur mantenendo il suo posto all'interno della propria sfera.
Il distintivo modus operandi di questo Papa politicamente potente suggerisce anche qualche previsione sul futuro del pontificato, l'istituzione più antica del mondo, e sul cattolicesimo nel Terzo millennio della sua storia. I pontefici hanno svolto sin dal Quinto secolo un ruolo fondamentale nell'ambito del potere. Il pontificato di papa Leone il Grande è una testimonianza ben nota per la storia occidentale. Inoltre dal 756 al 1870 i pontefici erano i governatori temporali di un'ampia parte dell'Italia centrale. I dettagli della lunga storia di quel millennio sono fuori dalla portata di questa discussione. Tuttavia tre punti chiave possono essere ricordati. Il primo riguarda la posizione unica del papa in quanto pastore della Chiesa globale. È almeno dalla fine del Quinto secolo, quando papa Gelasio I considerò "l'autorità consacrata del sacerdozio" e il "potere reale" come due distinte tipologie di autorità, attraverso le quali veniva governato il mondo, che si è andata affermando la convinzione che il Pontefice non poteva essere soggetto ad alcun potere terreno. Il riconoscimento di questa sovranità pontificia nello scambio di ambasciatori tra la Santa Sede e gli Stati sovrani, e nella presenza della Santa Sede all'interno delle organizzazioni internazionali, ci dice molto anche sul mondo del papato: è tacitamente riconosciuto che le regole morali siano rilevanti nella vita pubblica internazionale e che esistano esponenti attivi della politica mondiale come negli altri Stati. La seconda lezione da trarre dal coinvolgimento del papato nel potere temporale riguarda il ruolo della Chiesa nella creazione della società civile. La libertas ecclesiae, libertà della Chiesa, ha svolto un ruolo di controllo sulle pretese del potere statale per anni, sia che si trattasse del potere dei feudatari, che dei monarchi assolutisti, o del moderno Stato secolare. Per quanto confusamente i diversi Pontefici possano aver cercato di affermare teologicamente questo principio o di assicurarlo praticamente, rimane il fatto che la libertas ecclesiae ha rappresentato un fattore cruciale nella creazione di quello spazio sociale in cui, nel corso dei secoli, altre istituzioni libere si sono potute formare; la controversia con papa Gregorio VII che ha condotto Enrico IV a Canossa aveva implicazioni molto più significative delle posizioni di questi uomini nella società del loro tempo. Non è importante quanto tirannicamente alcuni pontefici si siano comportati in quell'occasione, quanto il fatto che il papato, come realtà istituzionale, abbia costituito una barriera alla tirannia dei politici per più di mille anni. E, se le istituzioni della "società civile" hanno rappresentato una scuola per imparare il giusto esercizio della libertà politica, così la difesa da parte del papato della libertà della Chiesa ha contribuito a porre le fondamenta della democrazia moderna.
In diverse occasioni, tuttavia, il coinvolgimento del papato nel potere temporale ha implicato un impegno tacito a svolgere un ruolo politico attraverso "convenzioni realiste" accettate. E qui sta la terza lezione: ovvero che questa forma di coinvolgimento, l'accordo di dettare regole attraverso terzi, può provocare difficoltà oltreché tradimenti. L'esempio peggiore si è verificato nel regno dello spirito umano e riguarda i tentativi di forzare le coscienze (come ha riconosciuto Giovanni Paolo II che nella prima domenica di Quaresima lo scorso anno ha chiesto perdono a Dio per tutte le volte in cui la Chiesa ha usato coercitivamente il potere dello Stato per far osservare i suoi diritti di verità). Ma c'è un altro esempio, forse meno noto, riguardo alla problematica del coinvolgimento: il fatto che gli Stati pontifici e la posizione del Pontefice in quanto sovrano temporale hanno condotto il papato verso una politica di alleanza che ha posto il pastore universale contro parte del suo gregge. Nel 1830-31, ad esempio, papa Gregorio XVI, a causa della complessa rete di alleanze politiche europee e delle allora regnanti teorie cattoliche sui diritti dei sovrani costituiti, si schierò dalla parte della Russia zarista, avendo questa soppresso una ribellione di gruppi che rivendicavano l'indipendenza. Esistono molteplici ambiguità attorno al termine "costantiniano", seppure nemmeno i termini "carolingio" e "gregoriano" rendono il significato che sto cercando di spiegare qui. Permettetemi quindi di usare il termine "accordo costantiniano" per intendere il profondo coinvolgimento della Chiesa e del papato con il potere dello Stato, l'accettazione tacita del papato dei criteri di giudizio politico che a volte si sono rivelati incompatibili con la missione evangelica della Chiesa e con la funzione evangelica del papato. Questo "accordo costantiniano" sin dall'inizio fu caratterizzato da numerose tensioni pratiche e teologiche. Con il Concilio Vaticano II e con il pontificato di Giovanni Paolo II, una nuova rinnovata auto-analisi e diverse circostanze storiche hanno dato vita a un nuovo modello di impegno tra papato e potere. Il Concilio Vaticano II e Giovanni Paolo II, a essere più precisi, hanno sotterrato l' "accordo costantiniano". Gli inizi di una nuova forma di partecipazione pontificia al mondo del potere risale a metà del Diciannovesimo secolo. A quel tempo, gli Stati pontifici erano soggetti a continue pressioni: inizialmente da parte della Francia rivoluzionaria e di Napoleone, in seguito dal nuovo Stato nazionale italiano. I Papi resistettero alla perdita della loro sovranità temporale fino alla fine. Tuttavia, mentre il vecchio edificio del potere temporale pontificio stava crollando, si scorgevano i primi indizi di un papato di testimonianza e persuasione morale. Owen Chadwick, storico dell'università di Cambridge, individua il primo di questi indizi nel 1839, quando papa Gregorio XVI condannò il commercio degli schiavi. Si trattava di una condanna che egli non aveva la capacità di far osservare; Gregorio XVI non riuscì nemmeno ad attirare l'attenzione del governo portoghese, il contravventore principale in questo ambito. Tuttavia indisse ugualmente la condanna, in un tentativo di persuasione morale. Una nuova forma di coinvolgimento papale con il mondo del potere può essere individuata inoltre nelle lotte condotte dai pontefici nella metà del Diciannovesimo secolo contro i governi europei, per la difesa dei vescovi locali e delle chiese locali su questioni quali l'autorità episcopale e la legge sul matrimonio. Allora, per la prima volta, i pontefici sollevarono l'interesse dell'opinione pubblica e della stampa internazionale. In questo periodo la figura del papa acquisì un maggiore controllo effettivo sulle chiese locali; tuttavia questa tendenza, spesso deplorata come "centralizzatrice", significava anche che il Papa poteva aiutare le chiese locali contro le varie pressioni governative. A causa di questo, conclude Chadwick, i cattolici della Germania, della Francia, del Regno Unito (ma anche della Spagna e dell'Austria) arrivarono a considerare il potere pontificio come "indispensabile" per la loro libertà. Negli anni 1854, 1862, 1867 e nel 1869-70, un gran numero di vescovi arrivò a Roma da tutto il mondo per la definizione dottrinale dell'immacolata concezione di Maria, per una protesta contro l'usurpazione del potere temporale, per la celebrazione del giubileo del martirio di Pietro e Paolo, e per il primo Concilio Vaticano. La presenza a Roma di questi vescovi dimostrò ai governi europei che la Chiesa aveva una sua propria vita, indipendente dall'imponente Stato moderno e dalla sua tendenza di occupare ogni angolo dello spazio sociale.
La più grande di queste assemblee, il Concilio Vaticano I, rappresentò un momento cardine nella definizione dei rapporti tra Stato Pontificio e mondo del potere. La dichiarazione del Concilio che il Papa godeva di una universale giurisdizione pastorale rinnegò, per questione di principio, ogni ruolo dello Stato moderno all'interno del governo ecclesiastico. Da qui cominciò un processo in cui l'autorità dei vescovi locali (di cui più dell'80 per cento erano nominati dai governi all'inizio del Diciannovesimo secolo) venne nuovamente legata alla loro comunione con il Vescovo di Roma, piuttosto che alla loro comunione con i loro governanti temporali. L'ampia rappresentanza al Concilio di vescovi cattolici d'oltre Europa dimostrò che la Chiesa cattolica non era semplicemente un ministero dell'Ancien Régime. Inoltre l'immensa popolarità personale di papa Pio IX legò i cattolici al papato mentre al Papa veniva conferita una nuova figura di personalità pubblica carismatica. La cessione degli Stati pontifici rappresentò, in effetti, il cambiamento cruciale poiché vennero create le condizioni per permettere al papato di partecipare alla vita politica con i propri strumenti. Ciò divenne evidente prima di tutto nel pontificato di Leone XIII, che fu, come sostiene Chadwick, "il primo Papa dopo Carlo Magno che non ereditò uno Stato per governare". La sua enciclica del 1879 sulla riforma del Tomismo, l'Aeterni Patris, suggeriva che la Chiesa aveva la capacità di partecipare alla vita intellettuale, così come a quella spirituale, in maniera indipendente dalla politica dello Stato moderno. La Rerum Novarum, l'enciclica di Leone XIII del 1891, sulla condizione della classe operaia e la Magna Charta della dottrina sociale cattolica, divennero un potente strumento nelle mani del papato per cercare di dare alle nazioni degli insegnamenti e non delle regole - un papato quindi che esercitava la sua influenza attraverso la discussione. (Una tale affermazione di dottrina sociale avrebbe mai potuto essere possibile se i pontefici fossero rimasti i governanti temporali degli Stati pontifici, all'interno dei quali, inoltre, avevano il potere plenipotenziario sulla vita sociale, politica ed economica? Non sembra probabile, forse addirittura impossibile).
Come succede per ogni processo che implichi una istituzione venerabile, tuttavia, l'evoluzione di un papato "post-costantiniano" da Pio IX a Giovanni Paolo II, è stata complessa e irregolare. Nello stesso momento in cui i pontefici stavano scoprendo nuovi modi di partecipare alla politica e al potere, la Santa Sede tentò di riaffermare il proprio ruolo all'interno degli affari internazionali dopo la perdita degli Stati pontifici. Il Trattato lateranense del 1929 risolse un problema: in quanto sovrano dello Stato della Città del Vaticano (e di tutti i suoi quattro ettari), il Papa non era soggetto ad alcuna autorità temporale superiore. Nel corso della prima metà del Ventesimo secolo, la Santa Sede tentò tenacemente di ricostruire le sue relazioni diplomatiche, di garantire la posizione legale della Chiesa negli Stati moderni, e di assegnarle un posto alla tavola dei forum internazionali, nonostante la non sempre buona accoglienza dei partecipanti. Nel 1919, la Santa Sede intrattenne relazioni diplomatiche solo con ventisei Stati, principalmente dell'America Latina, e a papa Benedetto XV non fu permesso di partecipare alla Conferenza sulla pace di Versailles per via della clausola 15 dell'accordo segreto che legava l'Italia nel 1915 ai suoi alleati. Modi di pensare convenzionali riguardo gli affari internazionali potrebbero essere fraintesi all'interno del Vaticano, in un momento in cui la chiarezza della percezione evangelica e morale sarebbe stata ben accetta. Nessuno studente serio di questi eventi ritiene che Pio XII fosse antisemita o che fosse ben disposto verso una dominazione nazista dell'Europa. Al contrario, nessuno studente serio di questo periodo è a conoscenza degli atti eroici di questo Papa nei confronti degli ebrei europei e di altre vittime del nazismo, fino al punto di intervenire come mediatore in un complotto per spodestare Hitler. Allo stesso tempo, le figure diplomatiche all'interno della Santa Sede, di stampo più antico, potrebbero essere state condizionate dalle tendenze realiste dell'analisi a tal punto da non percepire la differenza totalitaria del nazional socialismo tedesco, considerandolo una forma peggiore del nazionalismo tedesco classico. Se questo fosse vero, va detto che i diplomatici della Santa Sede non furono gli unici a sbagliare interpretazione. Anche se ci si aspetta di più in termini di chiarezza morale dalla Santa Sede piuttosto che da Downing Street o dal Quai d'Orsay.
A ogni modo, a metà degli anni Sessanta, il tentativo della Santa Sede di ottenere un posto alla tavola della vita politica internazionale ebbe successo. Strinse piene relazioni diplomatiche con cinquantadue Paesi a partire dal 1965 e dopo il 1964 si aggiudicò un posto come osservatore permanente presso le Nazioni unite. Mentre la situazione si stava così evolvendo nel dopoguerra, Pio XII e Giovanni XXIII contribuirono a conferire alla figura del papa un carisma pubblico e un'autorità morale internazionale. Arrivò quindi il momento cruciale: il Concilio Vaticano II, i cui insegnamenti accelerarono il processo di trasformazione del cattolicesimo in Chiesa "post-costantiniana" e resero possibile la ricostituzione del papato come primaria istituzione evangelica.
Piuttosto che concepire la Chiesa analogicamente allo Stato, come avevano fatto per secoli sia la teologia che la legge canonica, la Lumen Gentium, la costituzione dogmatica sulla Chiesa del Concilio, descrisse la Chiesa come movimento evangelico con una missione globale, un movimento in cui lo scopo dell'ufficio (compreso quello di Pietro) era facilitare la risposta di tutti i battezzati al richiamo universale alla santità. Secondo la Lumen Gentium, ogni altra funzione della Chiesa, comprese le sue relazioni con il potere, dovevano servire a questi obiettivi primari di evangelizzazione e santificazione.
La Dignitatis Humanae, la dichiarazione del Concilio sulla libertà religiosa, stabilì che lo Stato non era competente nelle questioni teologiche e dichiarò che la Chiesa non avrebbe mai più posto il potere coercitivo di Stato dietro i suoi diritti di verità. Così facendo, la Dignitatis Humanae conferì alla Chiesa cattolica il ruolo di imponente ed effettiva garante dei diritti umani.
La Gaudium et Spes, la costituzione pastorale del Concilio Vaticano II sulla Chiesa nel mondo moderno, ritrae la società libera e virtuosa in termini pluralistici, in quanto creata dall'interazione del sistema politico, economico e culturale. Così facendo, la Gaudium et Spes suggerisce un'immagine della Chiesa come maestra ed evangelista di cultura, piuttosto che l'immagine di parte politica in senso convenzionale.
La Christus Dominus, la Dichiarazione del Concilio sull'ufficio pastorale dei vescovi nella Chiesa, traccia una netta linea tra la Chiesa e il potere, suggerendo che, nel futuro, ai governi non verranno concessi "diritti o privilegi" nell'elezione dei vescovi. D'altro canto, come a sottolineare l'evoluzione irregolare all'interno delle grandi istituzioni e la complessità delle questioni derivanti dall'incontro tra l'ufficio di Pietro e il potere, il periodo immediatamente successivo al Concilio Vaticano II testimonia quale avrebbe potuto essere l'ultima iniziativa significativa dei 1.650 anni di storia del "papato costantiniano": la Ostpolitik di papa Paolo VI e del suo agente diplomatico capo, l'arcivescovo Agostino Casaroli. La Ostpolitik di Montini/Casaroli ha rappresentato un tentativo durato quattordici anni di raggiungere, attraverso la classica diplomazia bilaterale, un modus non moriendi (un modo per non morire) con gli Stati comunisti dell'Europa centrale e orientale. La Ostpolitik comprendeva sia un impegno tacito del Papa di evitare una critica morale pubblica del sistema leninista-marxista, che il tentativo da parte della Santa Sede di limitare le attività dei movimenti clandestini di preti e vescovi nei Paesi aderenti al Patto di Varsavia. Questa strategia diplomatica di "salvare il salvabile" (come Casaroli l'ha spesso definita) era caratterizzata da due ipotesi realistico-politiche: che la divisione europea dopo Yalta riguardava la vita internazionale per il futuro prevedibile, e che il varco aperto dalla Cortina di ferro sarebbe stato chiuso solo da una "convergenza" graduale, nella quale un Oriente in via di lenta liberalizzazione avrebbe incontrato un Occidente sempre più social-democratico. Durante questo processo glaciale, ammisero Montini e Casaroli, la Chiesa doveva prendere provvedimenti per la nomina dei vescovi e per la continuità della vita sacramentale, accordandosi con i governi esistenti, anche se questi accordi venivano deplorati (come accadeva spesso) dai locali movimenti clandestini della Chiesa. Eleggendo un Papa polacco, il collegio dei cardinali non rifiutò coscientemente questa strategia di compromesso. Alcuni fra coloro che sostennero la candidatura del cardinale Karol Wojtyla erano anche sostenitori della Ostpolitik (e in varie occasioni anche i fautori). Nel primo anno del suo pontificato, tuttavia, Giovanni Paolo II chiarì che egli intendeva perseguire personalmente una diversa linea d'azione "post-costantiniana" fondata sulla resistenza attraverso la rivoluzione morale. Per tre volte durante i primi quattro giorni di pontificato, Giovanni Paolo II difese con tenacia la libertà religiosa come il primo dei diritti umani, considerandola la cartina di tornasole di una società giusta; si trattava di un tema che non era stato affrontato dalla Ostpolitik di Paolo VI e di Casaroli. Così, nel corso del suo primo epico pellegrinaggio in Polonia nel giugno del 1979, Giovanni Paolo II svelò la sua strategia per un cambiamento politico attraverso la rivoluzione morale. Riconsegnando al suo popolo la sua autentica storia e cultura, nonché una forma di potere che i manganelli del regime non potevano raggiungere, il Santo Padre dimostrò che l'imperatore comunista aveva molte meno risorse di quante gli analisti realisti (inclusi i capi politici dell'Occidente e i diplomatici del Vaticano) sospettassero. Così facendo, egli aprì il sentiero verso il bisogno della solidarietà. E il resto, come si dice, è storia.
Nel suo recente Il martirio della Pazienza, le sue memorie pubblicate postume, il cardinale Casaroli, che Giovanni Paolo II nominò suo segretario di Stato nel 1979, suggerisce che non esiste alcuna differenza sostanziale tra la sua Ostpolitik e la "politica estera" di Giovanni Paolo II, ma soltanto una differenza di "fasi". È un'affermazione che non può resistere se la si sottopone a un'attenta analisi, come illustreranno due esempi. Poco prima dell'appello rivolto da Giovanni Paolo II alle Nazioni unite nell'ottobre del 1979, il cardinale Casaroli, il cauto diplomatico, ritoccò sistematicamente la bozza del discorso, eliminando i riferimenti alla libertà di religione e ad altre questioni inerenti i diritti umani che l'Unione Sovietica e i suoi Stati satellite avrebbero potuto ritenere offensive. Giovanni Paolo II, il testimone evangelico, altrettanto sistematicamente ripristinò il testo integrale. In seguito, durante un viaggio in Polonia nel 1983, immediatamente dopo quello che molti diplomatici chiamano "uno schietto scambio di vedute" tra il Santo Padre e il generale Wojciech Jaruzelski sulla legge marziale (coloro che si trovavano fuori dalla porta dicono di aver sentito provenire dall'interno rumori di pugni sbattuti sul tavolo), Giovanni Paolo II si trovava in piedi davanti alla finestra della sala da pranzo della residenza di Cracovia dell'arcivescovo, e partecipò a uno scherzoso scambio di battute con alcuni studenti che dimostravano all'esterno, mentre diversi ospiti, compreso il cardinale Casaroli, tentavano di continuare a cenare. Infine, come riportato da un altro illustre ospite presente alla cena, il cardinale Casaroli esplose rivolgendo le seguenti parole ai suoi sbigottiti commensali: "Ma cosa vuole? Forse uno spargimento di sangue? Vuole la guerra? Vuole far crollare il governo? Ogni giorno devo spiegare alle autorità che non c'è niente da fare!". Non sembra proprio la reazione di un uomo le cui differenze con il suo superiore erano semplicemente dovute a tattica o tempestività. La spiegazione più plausibile del rapporto fra Giovanni Paolo II e il cardinale Casaroli - una spiegazione che dimostra la complessa dinamica della relazione del papato con il potere in questo momento di transizione nella storia pontificia - è che, nominando questo fedele e abile uomo di chiesa, il fautore della Ostpolitik di Paolo VI, come suo personale segretario di Stato, Giovanni Paolo II stava deliberatamente adottando una duplice strategia. I residui dell'approccio "costantiniano" alla partecipazione al gioco seguendo le regole sarebbero stati schierati qualsiasi fosse stato il risultato; i dialoghi diplomatici avviati da Casaroli nel corso dei precedenti quattordici anni sarebbero continuati, e i regimi comunisti in questione non avrebbero potuto imputare al Vaticano l'inversione di tendenza o il rifiuto degli accordi formali. Nel frattempo lo stesso Papa avrebbe perseguito una strategia "post-costantiniana", rivolgendosi direttamente alle persone che potevano essere incoraggiate verso nuove forme di resistenza non violenta e quindi a una auto-liberazione attraverso il richiamo alle armi morali e il risveglio dell'umanesimo cristiano.
La Ostpolitik di Giovanni Paolo II è l'esempio più limpido fino a oggi di modello "post-costantiniano" di collaborazione fra papato e potere. Si tratta di un modello inevitabilmente diverso da quello proposto dalla Ostpolitik di Montini/Casaroli, sia dal punto di vista ecclesiastico, che strategico e tattico. Con Giovanni Paolo II si segna la rottura definitiva con l'"accordo costantiniano" del passato.
Ma tutto questo cosa rappresenta per il futuro? Proverò a dare una risposta raccontando la storia di due giornalisti. Uno di loro, un distinto editorialista ebreo-americano, famoso per aver affermato "Non so se credo in Dio, ma di sicuro lo temo", mi ha chiesto, il 16 maggio del 2000, chi sarebbe stato il prossimo papa. Gli ho risposto che non ne avevo la minima idea, al che ha replicato: "Bene. Ma sarebbe come Giovanni Paolo II?" Sì - ho risposto - penso che il prossimo papa potrebbe continuare nello stile evangelico di Giovanni Paolo II, compresi i ruoli pontifici in quanto difensore dei diritti umani basilari. Il mio amico si è messo a ridere. Quando gli ho chiesto cosa ci trovava di così divertente mi ha risposto "Vedi, nel 1978, non mi importava chi sarebbe stato il prossimo papa. Ora è diventato fondamentale per me". Il mio amico non ripone alcuna attesa religiosa di carattere personale nel papato, ma riconosce che qualcosa di buono è stato fatto per il mondo che può trovare un punto di riferimento morale universale, impersonificato in un antico ufficio il cui detentore ha agito negli affari mondiali secondo la logica delle affermazioni di verità della Chiesa, piuttosto che secondo le regole realistiche del gioco. Tre giorni più tardi, Vittorio Messori, interlocutore di Giovanni Paolo II nel best seller internazionale Varcare le soglie della speranza, scrisse un articolo su La Stampa di Torino, in cui sosteneva che i ventidue anni di "agitazione" slava erano stati sufficienti per la Chiesa, e che un ritorno alla "normalità" era opportuno (Messori con ciò si riferiva al ritorno al papato italiano). Gli italiani, spiegava Messori, avevano una disposizione naturale verso l'ufficio pontificio e verso le abili manovre della storia.
Il giornalista agnostico ebreo-americano, pare a me, ha una percezione più limpida di quello che il pontificato di Giovanni Paolo II ha rappresentato per la Chiesa e per il mondo, rispetto a Messori. E, anche se lui non la porrebbe in questi termini, il mio amico agnostico ha anche una comprensione più solida del fatto che la Chiesa è sì un "abitante alieno nel mondo", ma anche che essa esiste pur sempre per il mondo stesso e per la sua salvezza; mentre per il commentatore cattolico italiano la Chiesa rimane principalmente un'istituzione che deve essere governata. Tuttavia, lo scontro fra queste due interpretazioni sul significato dell'operato di Giovanni Paolo II sembra costituire la questione sulla sua successione: quale papa?
È scontato che i pontefici abbiano responsabilità sia evangeliche che istituzionali. Ma la domanda rimane "quale papa?". Un papa che sia prima di tutto un dirigente istituzionale, o un papa che sia prima di tutto un testimone evangelico? Nelle chiuse lungo i canali che dividono il Nord dal Sud di Seattle, i salmoni che nuotano verso casa per deporre le uova passano attraverso una serie di "trabocchetti", oltre i quali le possibilità di ritorno sono nulle. Con il Concilio Vaticano II, interpretato e impersonificato con autorità da Giovanni Paolo II, la Chiesa cattolica è passata attraverso un "trabocchetto" storico, dal quale non c'è ritorno. Il prossimo papa, o quello ancora successivo, o il suo quarto o quinto successore, potrebbe non essere in grado di rendere un dono spirituale e intellettuale tanto eccezionale all'ufficio di Pietro. Non possiamo saperlo. Ma gli obiettivi raggiunti da Karol Wojtyla nel rinnovare il papato non sono solo imputabili al suo merito. C'è una logica teologica, se vogliamo, all'interno del modello intellettuale-pastorale del papato che Wojtyla ha brillantemente impersonificato, e che sarà difficile capovolgere. Giovanni Paolo II ha rivitalizzato il papato per il Ventunesimo secolo recuperando e rinnovando le sue radici risalenti al Primo secolo, riportate nel Nuovo Testamento attraverso il ritratto di Pietro come unico detentore del ruolo di apostolo che "rafforzi i fratelli". Così facendo, Giovanni Paolo II ha allineato l'esercizio dell'ufficio di Pietro all'insegnamento del Concilio Vaticano II con la natura dell'episcopato in cui, scrivono i Padri del Concilio, "predicare il Vangelo è un orgoglio". I vescovi sono innanzitutto evangelisti, non dirigenti. Come ha dimostrato con efficacia Giovanni Paolo II, questo vale sia per i vescovi di Roma che per i vescovi della più piccola diocesi missionaria. Che questo processo di riconquista e di rinnovamento continui anche dopo Giovanni Paolo II è molto probabile anche perché la natura delle aspettative che circondano il papato è cambiata. Adesso più che mai, sia la Chiesa che il mondo, si aspettano che il Vescovo di Roma sia un testimone globale delle verità morali sulla dignità della persona umana. Né la Chiesa né il resto del mondo dovrebbero aspettarsi che dal conclave si produca un clone di Karol Wojtyla. Tuttavia, sia la Chiesa che il mondo hanno ragione di aspettarsi un papato evangelico-pastorale per il futuro, piuttosto che un papato dirigenziale-burocratico. Queste aspettative riguardano soprattutto le deliberazioni dei cardinali-elettori, coscienti di eleggere un papa non solo per la Chiesa cattolica, né certamente per loro stessi, ma per il mondo intero.
Affermare che il pontificato di Giovanni Paolo II costituisca un momento decisivo di sviluppo nell'ufficio di Pietro per la Chiesa non significa affermare che il papato "post-costantiniano" non sarà perciò caratterizzato da ambiguità e tensioni. Nell'esercizio del ministero globale della testimonianza morale e della persuasione esistono comunque tensioni innate. Diversi protestanti evangelici ritengono che questo sia uno degli aspetti più interessanti del pontificato di Giovanni Paolo II. Tuttavia lo sviluppo di questo modello potrebbe creare ulteriori difficoltà con i cristiani ortodossi, alcuni dei quali individuano in esso l'affermazione della giurisdizione universale alla quale non possono conformarsi. Ritengo che in questo essi sbaglino poiché, come suggerisce Giovanni Paolo II con l'enciclica del 1995, la Ut Unum Sint, il ministero pontificio universale di testimonianza non implica necessariamente un ruolo giurisdizionale nei Paesi dell'Est come quello che esercitano i vescovi di Roma nei Paesi dell'Ovest. Tuttavia, in queste questioni, la psicologia può rivelarsi più determinante della teologia, e i cattolici devono affrontare schiettamente il fatto che il bisogno di un papato evangelico-pastorale di portata universale abbia aggiunto un altro elemento alla lista dei problemi che dovranno essere risolti con la religione ortodossa.
Esistono tensioni anche tra il modello di papato evangelico-pastorale e l'attuale posizione diplomatica della Santa Sede. Nonostante un recente e bizzarro tentativo di privare il Vaticano del suo stato di osservatore permanente presso le Nazioni unite, la questione non riguarda il riconoscimento o meno della Santa Sede come rappresentate diplomatico dotato di "personalità" internazionale legale, che è in verità un'antica questione nella legislatura internazionale e nell'esercizio della diplomazia. La domanda allora è: che ruolo dovrebbe avere la Santa Sede? Attualmente la Santa Sede intrattiene pieni scambi diplomatici con 172 Paesi. In quelle democrazie sviluppate in cui la posizione legale della Chiesa è sicura, questa rappresentanza diplomatica non ha molto a che fare con gli affari pubblici, e il nunzio pontificio ha quasi esclusivamente la funzione di rappresentante del Papa presso la Chiesa cattolica di un dato Paese, una funzione che ha a che fare soprattutto con la nomina dei vescovi. Nelle nuove democrazie, la diplomazia pontificia ha contribuito a garantire un libero spazio alla Chiesa per agire, attraverso concordati o altri strumenti legali. Nei Paesi in cui i cattolici vengono perseguitati o sono soggetti a pressioni, il nunzio pontificio può garantire la salvaguardia dei cattolici locali: una linea di salvezza che raggiunga Roma e la possibilità per il Papa di focalizzare l'attenzione pubblica su questioni che i regimi autoritari preferiscono tenere nascoste. Il fatto che la Santa Sede venga riconosciuta come una rappresentanza diplomatica legale e internazionale, conferisce alla Chiesa e al Papa uno strumento per attaccare i regimi totalitari con i quali la Santa Sede non tiene relazioni diplomatiche, Paesi, di solito, in cui la chiesa locale è troppo debole per difendersi efficacemente. Oltre al suo stato di osservatore permanente presso l'Onu, la Santa Sede è rappresentata diplomaticamente anche presso l'Unione europea, presso l'Organizzazione per la sicurezza e la collaborazione in Europa e presso l'Organizzazione degli Stati americani. In quest'ambito internazionale, in cui vengono regolarmente prese decisioni che riguardano importanti questioni morali, l'essenza diplomatica, per così dire, della Santa Sede può determinare una differenza fondamentale. La difesa di Giovanni Paolo II, all'Onu nel 1979, dell'universalità dei diritti umani basilari ha rappresentato un fattore determinante per il crollo del comunismo, così come è successo nel 1995 con l'accettazione della sfida da parte di coloro che sostenevano che il concetto di "diritti umani" corrispondeva all'idea occidentale di "imperialismo culturale".
Non è importante sapere come sarà risolto il dibattito "quale papa?", poiché è alquanto improbabile che qualsiasi papa nel prossimo futuro distruggerà la rete diplomatica costruita dalla Santa Sede. In alcuni casi, questo potrebbe nuocere alla posizione delle chiese locali oppresse dal regime. Dal punto di vista internazionale, significherebbe trascurare un ascendente modesto ma reale che, in se stesso, è indiscutibilmente buono per il sistema internazionale: l'ascendente della persuasione morale, che ricorda al mondo del potere che il potere non è tutto.
Tentiamo ora un esperimento: dal punto di vista della Chiesa propriamente evangelico, credete che sarebbe auspicabile l'abbandono dei legami internazionali legali e diplomatici tra l'ufficio di Pietro e il potere? Non trovate che questo impegno sia in profonda tensione con la nozione di Chiesa in quanto movimento evangelico nella storia? I pontefici possono essere testimoni morali e "giocatori" allo stesso tempo? Non trovate che sarebbe più semplice, più chiaro se il papato lasciasse tutti i legami formali alle strutture del potere terreno e agisse solo come testimone morale?
Dipende da quello che si considera come "Chiesa" e come "politica". La Chiesa, secondo il Concilio Vaticano II, è un movimento evangelico della storia. Il che significa che ha una forma istituzionale e che tratta con altre istituzioni attraverso i migliori mezzi che gli esseri umani hanno creato per ordinare la propria vita comune: la legge e la politica. La Chiesa non è uno Stato e deve attentamente evitare di agire come uno Stato. Ma la Chiesa cattolica è più di un'associazione volontaria che persegue una causa. Essa è la personificazione dei diritti di verità, e, secondo la sua stessa interpretazione, le forme basilari di questa istituzionalizzazione sono la volontà di Dio: la Chiesa come comunione di fedeli; l'episcopato, il sacerdozio e l'ufficio di Pietro al servizio di questa comunione e del mondo. Per quanto ambiguamente - e le ambiguità diminuiranno se la Chiesa del Terzo millennio continuerà a sviluppare il modello "post-costantiniano" di partecipazione con il potere - il coinvolgimento formale del papato con le strutture politiche nazionali e internazionali è un'espressione della realtà della Chiesa come comunità sovrana. Una comunità che possiede appieno gli strumenti per raggiungere i suoi obiettivi spirituali, e non è quindi né dipendente né soggetta ad altre sovranità nel perseguimento di tali obiettivi. Questa espressione è importante perché la Chiesa sia quello che è. Il coinvolgimento formale del papato con la politica è altresì importante per la politica stessa. Se con il termine "politica" si intende il desiderio di potere e la capacità di imporre la mia volontà sulla tua, sarebbe allora sconveniente, addirittura contraddittorio, per un movimento evangelico consacrato al metodo della persuasione, partecipare a questo gioco.
Ma se si intende la "politica", anche quella internazionale, come una struttura che comprenda mutue deliberazioni circa i doveri della nostra vita comune - se nella politica, anche la politica delle nazioni, riteniamo di essere coinvolti in una sfera etica - allora le cose appaiono diversamente. Un movimento evangelico globale costituito come una istituzione sovrana per i suoi stessi fini spirituali ha una posizione rilevante nella deliberazione di questi doveri. Questa "posizione" è sia un richiamo verso la dimensione etica dell'esercizio del potere, che un controllo sulla tendenza assolutista costruita all'interno di tutte le politiche moderne. Ricordando al mondo del potere che esso non è sovrano su tutti gli aspetti della vita, il papato, impegnato diplomaticamente, realizza un servizio inestimabile al mondo del potere. Non è il potere che porta i principi in ginocchio alla confessione, sotto la neve. È qualcosa di molto più importante. Oggi la Santa Sede svolge un ruolo fondamentale nel sollevare una discussione morale - una discussione radicata nella dignità inalienabile della persona umana - in un ambito politico internazionale in cui sono in gioco molte altre rivendicazioni "morali": più precisamente, in questo momento storico, la moralità disperatamente difettosa dell'utilitarismo e la sua riduzione della persona umana a oggetto adatto alla manipolazione. La Santa Sede non è l'unica parte coinvolta nella lotta morale e politica contro i nuovi utilitaristi. Ma come ha dimostrato la Conferenza sulla popolazione del Cairo, essa rappresenta la difesa più potente ed efficiente della dignità della persona umana in quanto fondamento di pensiero giustamente ordinato verso la politica. Quindi, precisiamo per il bene del mondo, la Chiesa deve continuare a correre i rischi dell'ambiguità nel suo impegno con il potere, anche se il papato del Ventunesimo secolo è stato identificato nell'immagine di Giovanni Paolo II, l'erede e il campione del Concilio Vaticano II.
© 2001 First Things 110 - Febbraio
traduzione dall'inglese di Maria Pia Franco
George Weigel è un teologo laico americano e professore di Etica all'Università di Washington. E' autore di numerosi scritti su Karol Wojtyla, tra cui la biografia "Testimone della speranza"