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Il coraggio di assumersi la colpa

Autore:
Averincev, Sergej
Fonte:
www.liberalfondazione.it
Cosa significano davvero le ripetute e clamorose dichiarazioni di pentimento

Non comprenderà Giovanni Paolo II chi non lo vede alla luce di Incomincio col parlare subito di due aspetti. Prima di tutto nello spazio ridotto di questo articolo affronterò due argomenti che in un diverso contesto avrebbero logicamente dovuto essere presi in esame separatamente: la personalità di Giovanni Paolo II, dotata di caratteristiche individuali irripetibili, e i suoi doveri, che esulano dalla sfera personale, in qualità di supremo esponente del Magistero romano. Secondariamente, ho intenzione di proporre senza ambiguità un saggio di trattazione positiva di entrambi gli argomenti, senza tuttavia trasformarla in una banale apologia confessionalista: questo sia per il fatto che faccio parte della Chiesa ortodossa russa e sono abituato a pensare al Magistero in una prospettiva universalmente cristiana, sia anche perché il mio approccio, in netta contrapposizione rispetto a determinati eccessi del moderno liberalismo, scaturisce da un atteggiamento del tutto serio nei confronti dei fondamentali valori della tradizione liberale classica. Partiamo da quel liberalismo e umanesimo secolarizzato, laicista, agnostico che tante pretese avanza nei confronti di Giovanni Paolo II. Se c'è una persona che secondo me ha incarnato in modo convincente, sotto il profilo umano, l'ideale umanistico-liberale, questa persona è stata senza dubbio il compianto Andrej Sacharov. Per questo vorrei esordire raccontando di una conversazione che ebbi con lui, avvenuta, ahimè, alcune settimane prima della dipartita di questa indimenticabile figura; alla fine del 1989 Sacharov, con senso di profonda e seria partecipazione, mi confidò le sue impressioni dell'incontro con Giovanni Paolo II: "È un uomo che davvero sente il mondo intero e pensa a tutti". Queste parole esprimevano ciò che, senza dubbio, gli stava intimamente a cuore, dal momento che egli stesso aspirava a una prospettiva di carattere universalistico: si trattava di uno stato d'animo estremamente serio, per nulla riducibile agli schematismi del "globalismo" contemporaneo. Mai dimenticherò l'intonazione con cui vennero pronunciate queste parole, il tono della sua voce (1). In sostanza questa ammirazione per la prospettiva universalistica del pensiero del Papa è l'unico punto in cui l'umanesimo laico di Sacharov, in virtù della sua coerenza nella lotta contro l'illegalità totalitaria, ha manifestato un'inattesa vicinanza ai valori così apparentemente conservatori del Magistero. Il pensiero di Sacharov, difendendo il principio profondamente liberale dei diritti dell'uomo contro l'arbitrio della legislazione di uno Stato totalitario, de facto si avvicina chiaramente al concetto di ius naturale. Quante volte da allora in Occidente ho dovuto sentire discorsi che non c'è un concetto più dannoso, "autoritario", "repressivo" e "fondamentalista" di quello di ius naturale. In questi casi mi torna sempre in mente Sacharov il quale conosceva per esperienza, molto meglio di qualsiasi altro, che cosa significa lottare contro un pensiero repressivo, repressivo senza virgolette (2). Non penso che si stia uscendo fuori dal seminato. Tuttavia mi affretto a tornare alle questioni più direttamente connesse all'argomento trattato.
Nel ricordare Sacharov non si può non considerare tutto il contesto delle sue parole: il ruolo del "Papa arrivato dall'Est" - e venuto da lontano… - nella liberazione dei popoli dalle catene del totalitarismo. Un altro grande paladino russo della libertà, per molti aspetti in contrasto con Sacharov, Solgenitsyn, meno che mai filocattolico, in quei giorni non lontani, ma che ormai appaiono assai remoti, esclamò: "Ma questo non è un Papa: è un dono di Dio!". Ciò che si cela dietro questa esclamazione è noto a tutti, ma dovranno trascorrere non pochi anni prima che, forse, venga valutata appieno; a uno sguardo ravvicinato mal si distinguono le proporzioni.
A ogni modo questo avveniva ieri, e oggi? Oggi la figura di Giovanni Paolo II è indissolubilmente connessa, fra l'altro, alle sue dichiarazioni di pentimento, che tematizzano i diversi aspetti della colpa storica dei cattolici. Il più delle volte esse sono avvenute nel corso dei pellegrinaggi del Papa-Pellegrino: ad esempio, durante il suo soggiorno a Gerusalemme è stato affrontato il tema della colpa nei confronti degli ebrei, durante il recente viaggio ad Atene quello della colpa nei confronti degli ortodossi. Indipendentemente dalla diversità delle reazioni suscitate da tali iniziative (3), esse generano interesse, rimangono impresse nella memoria. Che dire di queste ultime? I critici liberali non possono dire nulla contro di esse oltre, ovviamente, muovere i prevedibili rimproveri circa il loro carattere insufficiente, tardivo, ecc. Di fatto però la situazione venutasi a creare tra esse e il discorso liberale, racchiude momenti davvero paradossali.
Si deve innanzitutto osservare che se non fosse per questa posizione del Pontefice romano nell'ambito del Magistero cattolico, che ha sempre subito, subisce e subirà accuse di "autoritarismo", analoghi atti di pentimento, di per se stessi, non sarebbero possibili. La condizione indispensabile perché essi possano avere luogo è che il protagonista abbia non soltanto il diritto morale, ma i pieni poteri, sotto il profilo canonico e giuridico, di parlare a nome di tutta la sua Chiesa, a nome di tutta la comunità religiosa da lui capeggiata. Quanti onesti vescovi e sacerdoti delle più diverse chiese si sono espressi, ad esempio, contro l'antisemitismo? Ma si trattava di voci personali, che avevano soltanto un significato locale. Si deve notare che proprio questa prerogativa del Pontefice, che tanti biasimi liberali suscita, ha svolto un ruolo importante all'epoca dell'opposizione all'hitlerismo. Certo, chi dai tempi di Rolf Chochhuth non ha accusato il Magistero romano per l'insufficienza di ciò che venne detto e fatto contro la Shoa, come se altri avessero detto o fatto a sufficienza! E tuttavia l'enciclica dell'impavido Pio XI Mit brennender Sorge, pubblicata, contrariamente alle consuetudini dell'epoca, in lingua tedesca, perché potesse essere letta dai pulpiti delle cattedrali e delle chiese in Germania, è l'unico fenomeno del genere. La sua unicità non era connessa unicamente alle caratteristiche personali di Papa Ratti, ma anche al suo rango: nel protestantesimo tedesco la "Chiesa confessionale" (Bekennende Kirche), che annoverava al suo interno pensatori come Karl Barth, aveva dato prova di grande coraggio, ma nessuno dei suoi esponenti era in grado a nome della Chiesa luterana e di quella riformata di sconfessare in blocco i conformisti appartenenti al novero dei cosiddetti "cristiani tedeschi" (Deutsche Christen), mentre alla summenzionata enciclica si poteva applicare la vecchia formula: "Roma locuta - causa finita!". Il che significa che se apprezziamo la condanna del razzismo, espressa già nel 1937, dobbiamo riflettere bene prima di ripetere i discorsi dei liberali (o, nella mia prospettiva personale, dei cristiani ortodossi) contro il Magistero universale.
Secondariamente, è interessante considerare il fatto che nessuna comunità religiosa non cristiana neppure si pone il problema delle proprie colpe. Tutte non fanno che avanzare richiesta di essere protette dalla political correctness. I soli a non essere protetti da quest'ultima sono i cristiani. E, secondo il mio modo di vedere, i cristiani non devono cercare per sé una simile protezione. Il cristianesimo non si fonda sulla "cultura della vergogna", ma sulla "cultura della colpa". Com'è noto, questa differenza risale all'analisi dei modelli della cultura giapponese svolta dall'antropologa americana Ruth Benedict e consiste in primo luogo nel fatto che il portatore della "cultura della colpa" ha in sé un impulso che lo spinge a capire fino in fondo la propria colpevolezza e ammetterla al cospetto di Dio e degli uomini, mentre il portatore della "cultura della vergogna" si preoccupa di "salvarsi la faccia", di conservare un'apparenza di dignità; questo accade perché il primo crede in un imperativo morale assoluto, mentre il secondo no. È curioso che ai giorni nostri si levano voci liberali le quali proclamano che la "cultura della vergogna" è più tollerante della "cultura della colpa"; in ogni caso essa è senza dubbio più comoda per il suo portatore. In particolare, essa non lo induce a riconoscere pubblicamente la colpa della propria comunità. La "cultura della colpa", alla ricerca di un criterio morale assoluto, accanto a grandi atti di bontà ha dato vita a non poche atrocità nei propri e negli altrui riguardi, descritte sia nel Vecchio Testamento sia negli annali della storia cristiana; ma essa, proprio essa, questa coscienza del cristianesimo, spinge a riconoscere di fronte al mondo intero la colpa per le atrocità commesse. La "cultura della vergogna" non induce a nulla del genere, né può farlo. Il che è degno di riflessione. A questo proposito sarebbe giusto dire, senza rimproverare e a maggior ragione senza umiliare nessuno, che l'iniziativa della quale stiamo parlando, rimane e, probabilmente, rimarrà isolata nel suo genere, e nessuno seguirà tale esempio. È solo in apparenza paradossale il fatto che in un criterio assoluto di bene morale proprio la fede, che in una sua falsa deviazione ha spinto gli inquisitori e altri fanatici e dissennati a compiere le azioni che hanno compiuto, dopo un rinsavimento conseguito grazie all'esperienza storica, giunga a un riconoscimento aperto e pubblico della propria colpa, cioè in un certo senso a un'azione estrema, pragmaticamente scomoda, "folle" (nel senso delle parole dell'apostolo Paolo sulla "follia della Croce"), alla rinuncia della saggezza quotidiana del compromesso propria della "cultura della vergogna". Se di secolo in secolo nell'area cristiana non si fosse coltivata l'arte di individuare la propria colpa, - certo, con tutti gli innumerevoli tristi casi in cui si cercava di "aiutare" il peccatore vero o presunto, - se lungo questo impervio cammino non si fosse andati avanti per due millenni, sia pure incespicando, allora tutta la cultura del criticismo, rivolto anche verso se stessi, senza la quale l'Occidente dell'età moderna è semplicemente impensabile, non sarebbe mai sorta, così come non è sorta nelle civiltà dell'antichità classica o dell'Oriente. Il criticismo, incluso il criticismo laico e laicistico, anticlericale e persino anticristiano, almeno in quella sua forma che è dotata di una qualche serietà morale, è impossibile senza la secolare consuetudine cristiana a individuare la propria colpa. Provate a immaginare un romano pagano, il più illuminato, umano e ben disposto verso i "barbari", persino incline a idealizzarli (così come Tacito idealizzava i germanici), che si mettesse a riflettere sulla colpa storica di Roma nei confronti di altri popoli! Immaginarsi una cosa simile è impossibile. Invece in Sant'Agostino in De civitate Dei e in alcuni altri Padri latini già si trovano aperture in questa direzione. Prima di loro c'erano stati i profeti del Vecchio Testamento, che avevano accusato tutta la comunità del popolo di Dio, alla quale essi stessi appartenevano. In effetti, la loro tradizione continua nei rimproveri evangelici di Cristo ai giudei, rimproveri che, ahimè, amavano citare i predicatori dell'antisemitismo pseudo cristiano, e sui quali invece adesso concentrano la propria attenzione coloro che denunciano l'antisemitismo, cercandone le fonti nel Nuovo Testamento, senza accorgersi, come non se ne accorgevano gli antisemiti, che questi rimproveri non provenivano dall'esterno, ma dall'interno, come le accuse profetiche del Vecchio Testamento nell'antichità (o come la critica dell'eroica ebrea Simone Weil, verso la fine della prima metà del Ventesimo secolo). Lo ripeto ancora: se vogliamo essere fedeli alla verità presente nella tradizione europea della coscienza critica, non la pietà religiosa, ma la semplice onestà intellettuale ci impedirà di denigrare la "cultura della colpa".
Il problema non sta nel fatto che la coscienza contemporanea è troppo critica nei riguardi della tradizione. Il problema sta nel fatto che essa è troppo poco critica, prima di tutto nei riguardi di se stessa, che non s'interroga a sufficienza sulle proprie premesse, con tutte le implicazioni che queste comportano.

Traduzione dal russo di Olga Strada

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