Punti nodali dell'enciclica "Fides et ratio"
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La breve introduzione all'enciclica Fides et ratio di Giovanni Paolo II (...) non vuol essere né una sintesi dell'enciclica né una guida alla lettura. Vuole soltanto mettere in rilievo alcuni punti nodali per aiutarne la comprensione e, in tal modo, facilitare la lettura dell'enciclica, che non solo è molto ampia, ma è anche molto complessa. Per di più richiede la conoscenza, almeno elementare, della storia, assai tormentata, del problema del rapporto tra fede e ragione, che si dibatte da sempre nella Chiesa, ma che negli ultimi due secoli è diventato particolarmente difficile, anche all'interno della Chiesa cattolica.
All'udire che Giovanni Paolo II ha pubblicato una nuova enciclica dal titolo Fides et ratio, coloro che non sono addentro ai problemi filosofici e teologici si saranno chiesti: di che cosa si tratta? E se si tratta di una contesa tra teologi e filosofi, a noi che cosa interessa? Quelli invece - teologi e filosofi - che sanno di che cosa si tratta, si saranno chiesti: valeva la pena tornare su una vecchia questione già risolta dal Concilio Vaticano I e ormai sorpassata, perché si vive in un tempo che non vuole sentir parlare di metafisica e in cui ai cristiani, per nutrire la loro fede, basta la parola di Dio contenuta nella Bibbia, senza bisogno di cercare labili puntelli razionali, di cui la filosofia moderna ha dimostrato l'inconsistenza? Si vuole davvero tornare a san Tommaso?
La nuova enciclica del Papa cade perciò in un terreno in qualche misura indifferente e ostile. È allora opportuno precisare due punti preliminari. Anzitutto che in questa enciclica il Papa si rivolge, per sé, "ai vescovi della Chiesa cattolica" e poi, alla fine dell'enciclica, ai teologi e ai filosofi: è dunque un'enciclica che si rivolge direttamente ai vescovi, ai teologi e ai filosofi e soltanto indirettamente a tutto il popolo cristiano. Ciò però non significa che quest'ultimo possa disinteressarsene come di una cosa che non lo riguarda. Il tema riguarda la fede di tutti i cristiani e perciò quelli che hanno una qualche preparazione culturale faranno bene a leggere l'enciclica, che del resto non è di difficile lettura.
In secondo luogo che la questione del rapporto tra fede e ragione è certamente vecchia di secoli ed è stata trattata ampiamente dal Concilio Vaticano I; ma è ancora attuale, perché dal 1870 a oggi molte cose in campo teologico e filosofico sono cambiate - in bene e in male -, e perciò il problema del rapporto tra fede e ragione può essere utilmente ripreso, sia per confermare quanto ha affermato il Vaticano I, sia per denunciare la pericolosa deriva della ragione verso lo scetticismo e il nichilismo. C'è una "crisi di fiducia nella ragione", estremamente pericolosa per la fede e di fronte alla quale perciò la Chiesa non può tacere: non può cioè non sforzarsi di riabilitare la ragione umana, difendendone la capacità di giungere alla verità per la quale essa è fatta.
L'enciclica Fides et ratio intende continuare la riflessione iniziata con l'enciclica Veritatis splendor, concentrando "l'attenzione sul tema della verità e sul suo fondamento in rapporto alla fede" (n. 6). Si ha spesso l'impressione che nel mondo attuale manchi un fondamento su cui costruire l'esistenza personale e sociale. Ciò dipende dal fatto che chi era chiamato per vocazione a esprimere in forme culturali il frutto della propria speculazione ha distolto lo sguardo dalla verità, preferendo il successo nell'immediato alla fatica di un'indagine paziente su ciò che merita di essere vissuto. La filosofia, che ha la grande responsabilità di formare il pensiero e la cultura attraverso il richiamo perenne alla ricerca del vero, deve recuperare con forza la sua vocazione originaria. "È per questo - aggiunge il Papa - che ho sentito non solo l'esigenza, ma anche il dovere di intervenire su questo tema" (n. 6).
Certamente c'è un doppio ordine di conoscenza: quello della fede, che si appoggia sulla testimonianza di Dio e si avvale dell'aiuto soprannaturale della grazia, e quello della conoscenza filosofica, che si appoggia sull'esperienza dei sensi e si muove alla luce del solo intelletto; ma la rivelazione di Dio che si compie in Cristo s'inserisce nel tempo e nella storia, cosicché "la storia diventa il luogo in cui possiamo constatare l'agire di Dio a favore dell'umanità" (n. 12); quindi "con la Rivelazione viene offerta all'uomo la verità ultima sulla propria vita e sul destino della storia". Perciò "al di fuori di questa prospettiva il mistero dell'esistenza personale rimane un enigma insolubile" (ivi). Ma la verità offerta dalla Rivelazione divina è "carica di mistero" e, quindi, può essere accettata soltanto con la fede, nella quale l'uomo dà il suo assenso alla testimonianza di Dio che rivela, poiché Dio stesso si fa garante della verità che rivela. È dunque accettando con un atto libero di fede la Rivelazione che l'uomo arriva a comprendere il mistero della sua esistenza. In conclusione, "la verità che la Rivelazione ci fa conoscere non è il frutto maturo o il punto culminante di un pensiero elaborato dalla ragione", ma è dono di Dio, che dev'essere "accolto come espressione di amore", ed è "anticipo, posto nella storia, di quella visione ultima e definitiva di Dio, che è riservata a quanti credono in lui o lo ricercano con cuore sincero" (n. 15).
Se c'è distinzione tra la conoscenza di fede e la conoscenza di ragione, c'è tuttavia tra queste due conoscenze un legame profondo. Per tale motivo "la ragione e la fede non possono essere separate senza che venga meno per l'uomo la possibilità di conoscere in modo adeguato se stesso, il mondo e Dio" (n. 16). In realtà, con la sua ragione l'uomo, leggendo il meraviglioso "libro della natura", può, con gli strumenti propri della ragione umana, giungere alla conoscenza di Dio Creatore; ma quanto essa raggiunge "acquista pieno significato solamente se il suo contenuto viene posto in un orizzonte più ampio, quello della fede" (n. 20). C'è dunque nell'uomo una "capacità metafisica" (n. 22).
Ma la ragione, e dunque la filosofia, deve riconoscere il suo limite, che è rappresentato dal mistero della Croce: "Il vero punto nodale, che sfida ogni filosofia, è la morte in croce di Gesù Cristo. Qui, infatti, ogni tentativo di ridurre il piano salvifico del Padre a pura logica umana è destinato al fallimento" (n. 23). Perciò "la ragione non può svuotare il mistero di amore che la Croce rappresenta, mentre la Croce può dare alla ragione la risposta ultima che essa cerca. Non la sapienza delle parole, ma la Parola della Sapienza è ciò che san Paolo pone come criterio di verità e, insieme, di salvezza" (ivi). In tal modo la filosofia è "sfidata" ad accogliere nella "follia" della Croce la genuina critica a quanti si illudono di possedere la verità, imbrigliandola nelle secche del loro sistema. Il rapporto tra fede e filosofia trova nella predicazione di Cristo crocifisso e risorto lo scoglio contro il quale può naufragare, ma oltre il quale può sfociare nell'oceano della verità. Qui si mostra evidente il confine tra la ragione e la fede, ma diventa anche chiaro lo spazio in cui ambedue si possono incontrare.
Infatti l'uomo è perennemente alla ricerca della verità, non tanto delle verità parziali quanto della verità totale, cioè del senso della vita e della morte, tanto che egli si può definire come "colui che cerca la verità" (n. 28). Non è allora pensabile che "una ricerca così profondamente radicata nella natura umana possa essere del tutto inutile e vana" (n. 29). Ma una ricerca sul senso della vita e della morte "non può trovare esito se non nell'assoluto" (n. 33). In realtà, "la fede cristiana viene incontro" all'uomo "offrendogli la possibilità concreta di vedere realizzato lo scopo di questa ricerca" (n. 33). Così i due ordini di conoscenza - la fede e la ragione - "conducono alla verità nella sua pienezza" (n. 34).
Fede e ragione, incontrandosi, conducono l'uomo alla pienezza della verità. Ma che ne è stato, storicamente, di tale incontro? Rispondendo a questa domanda, il Papa traccia una breve storia dei rapporti tra la Rivelazione e la filosofia greca. Anzitutto egli rileva che "i Padri accolsero in pieno la ragione aperta all'assoluto e in essa innestarono la ricchezza proveniente dalla Rivelazione [...]. Dinanzi alle filosofie, i Padri non ebbero tuttavia timore di riconoscere tanto gli elementi comuni quanto le diversità che esse presentavano rispetto alla Rivelazione" (n. 41). Osserva, poi, che nella filosofia scolastica "l'armonia fondamentale della conoscenza filosofica e della conoscenza della fede è ancora una volta confermata: la fede chiede che il suo oggetto venga compreso con l'aiuto della ragione [intellego ut credam]; la ragione, al culmine della sua ricerca, ammette come necessario ciò che la fede presenta [credo ut intellegam] (n. 42).
Tuttavia è nel pensiero di san Tommaso d'Aquino che l'armonia tra fede e ragione raggiunge il punto più alto. Egli infatti riconosce che "la natura, oggetto della filosofia, può contribuire alla comprensione della rivelazione divina. La fede, dunque, non teme la ragione, ma la ricerca e in essa confida. Come la grazia suppone la natura e la porta a compimento, così la fede suppone e perfeziona la ragione. Quest'ultima, illuminata dalla fede, viene liberata dalla fragilità e dai limiti derivanti dalla disobbedienza del peccato e trova la forza necessaria per elevarsi alla conoscenza del mistero di Dio Uno e Trino" (n. 43). "È per questo motivo - sottolinea il Papa - che, giustamente, san Tommaso è stato sempre proposto dalla Chiesa come maestro di pensiero e modello del retto modo di fare teologia" (ivi).
A partire dal tardo Medioevo, la legittima distinzione tra fede e ragione, riconosciuta da sant'Alberto Magno e da san Tommaso, "si trasformò progressivamente in nefasta separazione" (n. 45). In tal modo si giunse di fatto "a una filosofia separata e assolutamente autonoma nei confronti dei contenuti della fede" e ad "una conoscenza razionale separata dalla fede e alternativa ad essa" (ivi). D'altra parte, nella ricerca scientifica si è venuta imponendo una mentalità positivistica che non soltanto si è allontanata da ogni riferimento alla visione cristiana del mondo, ma ha anche, e soprattutto, lasciato cadere ogni richiamo alla visione metafisica e morale. Come conseguenza della crisi del razionalismo ha preso corpo, infine, il nichilismo. Il risultato di tutto questo è stato l'impoverimento della ragione e della fede. "La ragione, privata dell'apporto della Rivelazione, ha percorso sentieri laterali che rischiano di farle perdere di vista la sua meta finale. La fede, privata della ragione, ha sottolineato il sentimento e l'esperienza, correndo il rischio di non essere più una proposta universale" (n. 48).
Di fronte a queste deviazioni del pensiero filosofico è intervenuto varie volte il Magistero della Chiesa non per proporre una propria filosofia o canonizzare una qualsiasi filosofia particolare a scapito di altre, ma, come è suo obbligo, "per reagire in maniera chiara e forte quando tesi filosofiche discutibili minacciano la retta comprensione del dato rivelato e quando si diffondono teorie false o di parte che seminano gravi errori, confondendo la semplicità e la purezza della fede del popolo di Dio" (n. 49). Quindi il Magistero ecclesiastico "può e deve esercitare autoritativamente, alla luce della fede, il proprio discernimento critico nei confronti delle filosofie e delle affermazioni che si scontrano con la dottrina cristiana" (n. 50). Anzitutto spetta ad esso "indicare quali presupposti e conclusioni filosofiche sarebbero incompatibili con la fede rivelata, formulando con ciò stesso le esigenze che si impongono alla filosofia dal punto di vista della fede [...]. La Chiesa ha il dovere di indicare ciò che in un sistema filosofico può risultare incompatibile con la sua fede. Molti contenuti filosofici, infatti, quali i temi di Dio, dell'uomo, della sua libertà e del suo agire etico, la chiamano in causa direttamente, perché toccano la verità rivelata che essa custodisce" (ivi). Così facendo la Chiesa intende "provocare, promuovere e incoraggiare il pensiero filosofico, [...] perché non si precluda la strada che conduce al riconoscimento del mistero" (n. 51).
Così la Chiesa ha censurato, da una parte, il fideismo e il tradizionalismo radicale, per la loro sfiducia nelle capacità naturali della ragione; dall'altra, ha rigettato il razionalismo e l'ontologismo, perché attribuivano alla ragione naturale ciò che è conoscibile solo alla luce della fede. Ha poi mostrato quanto la ragione e la fede fossero nello stesso tempo "inseparabili" l'una dall'altra e "irriducibili" l'una all'altra. Questo fece il Concilio Vaticano I. Oggi la Chiesa deve combattere la "radicale sfiducia nella ragione" da parte di coloro che parlano di "fine della metafisica" (n. 55).
Anzi, nella stessa teologia "si fa nuovamente strada un certo razionalismo", mentre "non mancano neppure pericolosi ripiegamenti sul fideismo, che non riconosce l'importanza della conoscenza razionale e del discorso filosofico per l'intelligenza della fede, anzi per la stessa possibilità di credere in Dio. Un'espressione oggi diffusa di tale tendenza fideistica è il "biblicismo", che tende a fare della lettura della Sacra Scrittura o della sua esegesi l'unico punto di riferimento veritativo", dimenticando che la Sacra Scrittura non è il solo riferimento della Chiesa, poiché "la regola suprema della propria fede" le proviene dall'unità che lo Spirito ha posto tra la Sacra Tradizione, la Sacra Scrittura e il Magistero della Chiesa in una reciprocità tale per cui i tre non possono sussistere in maniera indipendente" (n. 55). Altre forme di latente fideismo "sono riconoscibili nella poca considerazione che viene riservata alla teologia speculativa, come pure nel disprezzo della filosofia classica, alle cui funzioni sia l'intelligenza della fede, sia le stesse formulazioni dogmatiche hanno attinto i loro termini" (ivi). Ad ogni modo la Chiesa ha grande interesse per la filosofia e intende oggi impegnarsi per il suo genuino rinnovamento, indicando alcuni concreti percorsi da seguire, come già fece nel secolo scorso Leone XIII con l'enciclica Aeterni Patris (4 agosto 1879), riproponendo la filosofia di san Tommaso come "la strada migliore per ricuperare un uso della filosofia conforme alle esigenze della fede" (n. 57).
Dello studio della filosofia si è occupato anche il Vaticano II chiedendo che le discipline filosofiche siano insegnate "basandosi sul patrimonio filosofico perennemente valido, tenuto conto anche delle correnti filosofiche moderne" (n. 60). Da parte sua il Papa più volte ha "sottolineato l'importanza di questa formazione filosofica per quanti dovranno un giorno, nella vita pastorale, confrontarsi con le istanze del mondo contemporaneo e cogliervi le cause di alcuni comportamenti per darvi pronta risposta" (ivi). Rilevando che dopo il Vaticano II c'è stato un certo decadimento della filosofia scolastica e della filosofia in generale, e rammaricandosi che "non pochi teologi condividono questo disinteresse per lo studio della filosofia" (n. 61), il Papa desidera "ribadire con vigore che lo studio della filosofia riveste un carattere fondamentale e ineliminabile nella struttura degli studi teologici e nella formazione dei candidati al sacerdozio" (n. 62).
Poiché la teologia nell'adempimento dei suoi compiti "non può fare a meno di entrare in rapporto con le filosofie di fatto elaborate nel corso della storia", il Papa richiama "alcuni compiti propri della teologia, nei quali il ricorso al pensiero filosofico si impone in forza della natura stessa della Parola rivelata" (n. 64).
La teologia è organizzata intorno all'ascolto della fede (auditus fidei) e all'intelligenza della fede (intellectus fidei). Ma l'ascolto pone alla teologia i problemi della conoscenza e del linguaggio, per una retta comprensione tanto della Bibbia quanto della tradizione ecclesiale, la quale si è espressa in forme di pensiero mutuate da una determinata tradizione filosofica. Il teologo quindi deve conoscere tali tradizioni filosofiche (cfr. n. 65).
Da parte sua l'intelligenza della fede richiede che questa venga espressa in concetti formulati in modo critico e universalmente comunicabile. Ora, senza l'apporto della filosofia, il teologo non può illustrare il linguaggio su Dio, le relazioni trinitarie, l'azione creatrice di Dio, il rapporto tra Dio e l'uomo, l'identità di Cristo, vero Dio e vero uomo; quanto al teologo morale deve necessariamente ricorrere a concetti di etica filosofica, quali legge morale, coscienza, libertà, responsabilità, colpa (cfr. n. 66).
Oggi poi si pone in maniera drammatica il problema dell'inculturazione. A questo proposito il Papa avverte che "quando la Chiesa entra in contatto con grandi culture precedentemente non ancora raggiunte, non può lasciarsi alle spalle ciò che ha acquisito dall'inculturazione nel pensiero greco-latino. Rifiutare una tale eredità sarebbe andare contro il disegno provvidenziale di Dio, che conduce la Chiesa lungo le strade del tempo e della storia. Questo criterio, del resto, vale per la Chiesa di ogni epoca, anche per quella di domani, che si sentirà arricchita dalle acquisizioni realizzate nell'odierno approccio con le culture orientali e troverà in questa eredità nuove indicazioni per entrare fruttuosamente in dialogo con quelle culture che l'umanità saprà far fiorire nel suo cammino incontro al futuro" (n. 72).
Perciò il rapporto che deve instaurarsi tra la teologia e la filosofia "sarà all'insegna della circolarità". Per una migliore comprensione della Parola, la teologia non potrà non giovarsi della filosofia; questa, a sua volta, dall'incontro con la Parola di Dio "esce arricchita, perché scopre insospettati orizzonti" (n. 73). La fecondità di un simile rapporto di circolarità è dimostrata dalla vicenda di tanti teologi cristiani "che si segnalarono come grandi filosofi": per l'antichità si possono ricordare san Gregorio Nazianzeno e sant'Agostino; per il Medioevo, sant'Anselmo, san Bonaventura e san Tommaso d'Aquino; per il mondo moderno, in Occidente, J. H. Newman, A. Rosmini, J. Maritain, E. Gilson, E. Stein e, in Oriente, V. S. Solov'ëv, P. A. Florenskij, P. J. Caadaev, V. N. Lossky (cfr. n. 74).
Tuttavia, anche quando i filosofi, pur restando filosofi, cioè sul piano della ragione, hanno fatto filosofia "in unione vitale con la fede" (n. 76), hanno scoperto verità che, pur essendo accessibili naturalmente alla ragione, forse mai avrebbero scoperto senza l'apporto della Rivelazione, come "il concetto di Dio personale, libero e creatore", come "la realtà del peccato [...], la quale aiuta a impostare filosoficamente in modo adeguato il problema del male", come la dignità della persona umana, la libertà e l'uguaglianza tra tutti gli uomini. "Si può dire che, senza questo influsso stimolante della parola di Dio, buona parte della filosofia moderna e contemporanea non esisterebbe" (ivi). Se dunque la teologia ha bisogno della filosofia, "perché la fede se non è pensata è nulla" (sant'Agostino), la filosofia ha bisogno della Rivelazione, sia per non smarrirsi nell'errore, sia per ampliare i suoi orizzonti.
Si comprende allora "perché il Magistero abbia ripetutamente lodato i meriti del pensiero di san Tommaso e lo abbia posto come guida e modello degli studi teologici", nell'intento di "mostrare come san Tommaso sia un autentico modello per quanti cercano la verità. Nella sua riflessione, infatti, l'esigenza della ragione e la forza della fede hanno trovato la sintesi più alta che il pensiero abbia mai raggiunto, in quanto egli ha saputo difendere la radicale novità portata dalla Rivelazione senza mai umiliare il cammino proprio della ragione" (n. 78).
È dunque "auspicabile che teologi e filosofi si lascino guidare dall'unica autorità della verità così che venga elaborata una filosofia in consonanza con la parola di Dio. Questa filosofia sarà il terreno d'incontro tra le culture e la fede cristiana, il luogo di intesa tra credenti e non credenti" (n. 79). Tale filosofia - che deve ritrovare "la sua dimensione sapienziale di ricerca del senso ultimo e globale della vita" (n. 81) - non può essere né radicalmente fenomenista né relativista, ma dev'essere "di portata autenticamente metafisica, capace cioè di trascendere i dati empirici, per giungere, nella sua ricerca della verità, a qualcosa di assoluto, di ultimo, di fondante" (n. 83); quindi, capace di "compiere il passaggio, tanto necessario quanto urgente, dal fenomeno al fondamento" (ivi). In realtà, "la metafisica si pone come mediazione privilegiata nella ricerca teologica" (ivi).
Di qui la pericolosità che presentano per la fede cristiana teorie filosofiche come lo storicismo, lo scientismo, il pragmatismo e il nichilismo (cfr. nn. 87-90). D'altra parte, l'intellectus fidei, "se vuole integrare tutta la ricchezza della tradizione teologica, deve ricorrere alla filosofia dell'essere" (n. 97).
Giovanni Paolo II conclude la sua enciclica sottolineando "il valore che la filosofia possiede nei confronti dell'intelligenza della fede" (n. 100) ed esortando i teologi a "recuperare [...] la dimensione metafisica della verità" (n. 105), e i responsabili della formazione sacerdotale "perché curino con particolare attenzione la formazione filosofica di chi dovrà annunziare il Vangelo all'uomo di oggi e, più ancora, di chi dovrà dedicarsi alla ricerca e all'insegnamento della teologia" (ivi); rivolge poi un appello ai filosofi "perché abbiano il coraggio di recuperare, sulla scia di una tradizione filosofica perennemente valida, la dimensione di autentica saggezza e verità, anche metafisica, del pensiero filosofico" (n. 106). A tutti infine il Papa chiede di "guardare in profondità all'uomo, che Cristo ha salvato nel mistero del suo amore, e alla sua costante ricerca di verità e di senso" (n. 107). L'ultimo pensiero del Papa è a Maria, Sede della Sapienza: possa ella "essere il porto sicuro per quanti fanno della loro vita la ricerca della saggezza" (n. 108).
Vogliamo concludere queste righe introduttive all'enciclica Fides et ratio rilevando due cose. Anzitutto, il coraggio che Giovanni Paolo II ha mostrato nel trattare un tema, come quello del valore della ragione metafisica, oggi fortemente controcorrente. Dopo che I. Kant alla fine del Settecento ha squalificato la metafisica, dichiarando che la ragione umana non può andare al di là del fenomeno e quindi non può giungere a conoscere l'essere, cioè la realtà che è al di là del sensibile; dopo che il positivismo ha affermato che l'uomo può conoscere solamente quello che è attingibile dai sensi; dopo che il neopositivismo logico ha affermato che parole come "Dio", "spirito", sono senza senso, cioè non significano nulla di reale; dopo che M. Heidegger ha affermato che la ragione può raggiungere l'essente, ma non l'Essere; ci vuole coraggio a rivalutare la ragione metafisica, perché si rischia di passare per una persona fuori della storia, aggrappata a concezioni filosofiche arretrate, ancora immersa nel "sonno metafisico", da cui Kant ha risvegliato il pensiero umano. Con la sua enciclica dunque il Papa rischia l'impopolarità. Il coraggio del Papa è il coraggio della verità, e perciò non ci si deve preoccupare di possibili giudizi sfavorevoli nei riguardi dell'enciclica Fides et ratio.
In secondo luogo si deve ascrivere a merito del Papa l'aver rivalutato l'uomo, esaltando quello che c'è di più grande e di più nobile in lui: la ragione raziocinante, capace di conoscere la verità e di apprendere la realtà universale, capace in primo luogo di conoscere Dio e di penetrare in qualche misura nel suo mistero. Infatti la grandezza dell'uomo sta nello spirito, nella ragione, che è ciò che distingue l'uomo dall'animale non solo "per grado", ma "per natura". Sta quindi nella sua capacità di conoscere Dio e le realtà spirituali, di dominare il mondo e di non essere dominato dalle cose. La Fides et ratio è dunque un'enciclica che esalta l'uomo come "immagine di Dio" e perciò sarà apprezzata da tutti coloro che credono nell'uomo e nella sua capacità di giungere alla verità totale, che è anche di ordine metafisico e non puramente scientifico.
da La Civiltà Cattolica, 17 ott. 1998 IV 107-116