Testimoni di un dolore: Gesù nel Getzemani
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Ora che pecorelle cogli agnelli,
Si sbandano stupite e, per le strade
Che già furono urbane, si desolano;
Ora che prova un popolo
Dopo gli strappi dell'emigrazione,
La stolta iniquità delle deportazioni;
Ora che nelle fosse
Con fantasia ritorta e mani spudorate
Dalle fattezze umane l'uomo lacera
L'immagine divina
E pietà in grido si contrae di pietra;
Ora che l'innocenza
Reclama almeno un'eco,
E geme anche nel cuore più indurito;
Ora che sono vani gli altri gridi;
Vedo ora chiaro nella notte triste.
Vedo ora nella notte triste, imparo,
So che l'inferno s'apre sulla terra
Su misura di quanto
L'uomo si sottrae, folle,
Alla purezza della Tua passione.
In questo testo, che abbiamo scelto per essere "testimone di un dolore", Ungaretti fissa le sue interiori riflessioni, dopo aver assistito agli orrori della guerra. (Ricordiamo che Ungaretti, fu un fervente interventista e partecipò, in qualità di soldato semplice - nella fanteria - al primo conflitto mondiale).
"Ora che pecorelle cogli agnelli, si sbandano stupite e… si desolano". È da evidenziare che tali strade sono "strade che già furono urbane". Colpisce questo uso del verbo al passato. È come se sorgesse, nella mente del poeta, quasi il dubbio che, dopo tante e tali atrocità portate dalla guerra, atrocità di cui, appunto, le strade furono piene e di cui furono, per così dire, "testimoni", esse non siano più "degne" dell'appellativo "urbane", prive come sono di "urbanità" (cioè di tutte quelle caratteristiche proprie del "viver civile").
"Pecorelle con gli agnelli" cioè grandi e piccoli, tutti sono allo sbando. Il dolore non ha risparmiato nessuno:l'agonia è generale.
E queste "pecorelle con gli agnelli" "sbandano stupite"; stupite, nota il poeta con delicatezza e quasi "pudore", ma forse sarebbe più aderente al vero dire "stravolte", incredule di fronte alla cattiveria che può nascere nel cuore umano e che la guerra ha messo a nudo. Sono "stupite" perciò, tristemente "stupite" e spaesate, incapaci di orientarsi nel dedalo delle loro macerie interiori e travolti dalle miserie umane che li circondano.
Ecco, allora, che "si desolano": termine, questo, che ben esprime lo smarrimento intimo e profondo, un sentimento di sconforto, un misto di desolazione e di isolamento interiore, dove ognuno si trova in balia di se stesso.
"La stolta iniquità delle deportazioni". Quella delle deportazioni, nota Ungaretti, è un'iniquità "stolta", già morta in se medesima e quindi foriera solo di morte, di lutti e di angosciosi ed angoscianti sofferenze.
"Ora che prova un popolo… la stolta iniquità delle deportazioni" scrive, dunque il poeta. È da notare che la frase è separata dall'espressione "dopo gli strappi dell'emigrazione". Il riferimento, forse fin troppo palese, è certo alle correnti migratorie che caratterizzarono l'inizio del '900 quando anche molti italiani, in cerca di "miglior fortuna", nel tentativo di sfuggire alla miseria in cui vivevano in Patria, emigrarono all'estero. Con questa scelta di intersezione sembra quasi che il poeta voglia portare alla nostra attenzione l'evidente contrasto esistente tra le emigrazioni (compiute "volontariamente") e le deportazioni (attuate forzatamente). Perciò, il dolore volontario degli "strappi" affettivi causati dall'emigrazione - sembra volerci far notare Ungaretti - non aveva e non ha nulla a che spartire con il bieco dolore delle deportazioni, essendo, quest'ultimo, frutto solo dell'iniquità umana. Quello portato dalle migrazione era infatti un dolore "aperto" al futuro, una sofferenza accettata e vissuta in vista di un bene maggiore (miglioramento sociale ed economico). Quello delle deportazioni è, invece, un dolore "sordo", "cupo", frutto nefando della cattiveria umana gratuitamente votatasi al male.
"Ora che… l'uomo lacera l'immagine divina", ovvero quell'immagine che Dio impresse nell'uomo quando "creò l'uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò" (Gen. 1,27).
L'uomo distorce l'immagine divina impresa nel suo simile e lo fa "con fantasia ritorta e mani spudorate". Si ha qui, presentata da Ungaretti, quasi una raffigurazione plastica dell'agire del "serpente antico", che si insinua nuovamente nella mente umana inquinandone i pensieri fino a generare nell'uomo "una fantasia ritorta" e spingendolo, poi, ad agire con "mani spudorate" sì che la "pietà in grido si contrae di pietra".
"Dalle fattezze umane… lacera l'immagine…" Quando il volto dell'uomo non riflette più il Volto di Dio, esso diviene allora una "maschera tragica" (come quelle che, nelle tragedie greche, venivano indossate dagli attori).
L'immagine divina, però, non è cancellata. Sotto questa apparenza superficiale da "pantomima" essa rimane, anche se lacerata, offuscata, e resa opaca dalle innumerevoli atrocità che gli uomini -in guerra con altri uomini - vedono e vivono, divenendo strumenti e testimoni di quel "mistero del male" che si manifesta all'uomo attraverso l'opera dei suoi simili (che ora lui considera "i nemici da combattere" e non più "i compagni con cui condividere il cammino della vita") e si manifesta, appunto, con "fantasia ritorta e mani spudorate".
Ma il male, neppure qui, ha mai l'ultima parola. Seppure la "pietà in grido si contrae di pietra" l'innocenza - che nonostante tutto è "sopravvissuta" in seno all'umanità, e fa capolino quale "colomba di pace che lega ancora la terra al cielo - si fa presente, si fa udire "e geme anche nel cuore più indurito" vanificando "gli altri gridi", cioè togliendo loro il carattere di "nefanda conclusione delle umane vicende", quella "nota cupa" che uccide la speranza. Si apre, di conseguenza, anche nella realtà più nera, uno spiraglio di luce che invita a cogliere la presenza di una verità più profonda perché abitata da una Presenza.
"Ora che l'innocenza reclama almeno un'eco," prosegue la lirica.
La voce del dolore innocente sale a Dio dalla terra e, dove la coscienza non è ancora totalmente morta, la sua eco "geme anche nel cuore più indurito".
Testimone di questo, dice allora il poeta, "vedo chiaro nella notte triste". Si è accesa in lui la fiaccola della fede che non mistifica la realtà, non nasconde né disconosce il male, ma lo illumina di una nuova luce, lo priva, come dicevamo poc'anzi, della sua dimensione disperante rendendo l'uomo cosciente che se da una parte, nella "misura di quanto l'uomo si sottrae alla purezza della passione" di Cristo, "l'inferno s'apre sulla terra", dall'altra, le sofferenze vissute da Cristo durante la sua Passione, hanno aperto al mondo la via della redenzione e della salvezza.
"Ora - dice il poeta di fronte al dolore infinito causato dalla guerra - ora che sono vani gli altri gridi;" gridi sbiaditi, scialbi, scoloriti ed insulsi se paragonati al grido di dolore e di morte portato da quel conflitto mondiale di cui, Ungaretti soldato, è stato protagonista, testimone e vittima. Il poeta vede ora "con gli occhi del cuore".
"Vedo ora chiaro nella notte triste" nota Ungaretti, cosciente di essere immerso nella "notte triste" ma - dice - "vedo chiaro" e " imparo" che il mondo è avvolto nelle tenebre, la notte è scesa sulla terra ed è una "notte triste", cupa, non protesa né aperta ad alcuna possibilità di "rinascita" perché questa "notte triste" è rimasta chiusa in se stessa da quando l'uomo ha fatto, di se stesso soltanto, il fulcro del mondo, ostracizzando Dio dalla sua vita.
Ma basterebbe che l'uomo si sciogliesse dal "laccio velenoso" del suo egocentrismo asfissiante perché tutto possa cambiare, la prospettiva si aprirebbe su "infiniti spazi e sovrumani silenzi" (si potrebbe dire, parafrasando Leopardi) e la vita ritornerebbe a scorrere anche nella "notte" più fonda.
Dopo tale presa di coscienza "Vedo ora - conclude il poeta formulando quasi una preghiera rivolta a Cristo - e imparo,… so che l'inferno s'apre sulla terra su misura di quanto l'uomo si sottrae, folle, alla purezza della Tua passione."
Terminiamo allora con un'altra poesia/preghiera sgorgata dal cuore di Ungaretti in cui egli, dopo aver assistito agli orrori della guerra ed esser stato testimone del dolore che l'uomo, quando dimentica Dio, sa causare al suo simile, si rivolge a Cristo chiedendogli, tacitamente, di "farsi presente", di porsi accanto all'uomo di ogni tempo, nel momento del Getzemani che tutti, prima o poi, nella vita, sono chiamati ad attraversare.
Lasciamo la parola a Ungaretti e uniamoci alla sua preghiera:
"Fa piaga nel Tuo cuore
La somma del dolore
Che va spargendo sulla terra l'uomo;
Il Tuo cuore è la sede appassionata
Dell'amore non vano.
Cristo, pensoso palpito,
Astro incarnato nell'umane tenebre,
Fratello che t'immoli
Perennemente per riedificare
Umanamente l'uomo,
Santo, Santo che soffri,
Maestro e fratello e Dio che ci sai deboli,
Santo, Santo che soffri
Per liberare dalla morte i morti
E sorreggere noi infelici vivi,
D'un pianto solo mio non piango più,
Ecco, Ti chiamo, Santo,
Santo, Santo che soffri."
(Figura 1: Duccio, Gesù nel Getsemani, Siena)