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Elia: una voce sottile di silenzio

Fonte:
CulturaCattolica.it ©
Juan Antonio Frias Escalante, Il profeta Elia e l'Angelo

Questo capitolo, che come già detto forma una sorta di dittico con il capitolo precedente, presenta un immagine di Elia completamente diversa a quella conosciuta fin qui.
Gezabele, conosciuto l’esito della sfida del monte Carmelo e la sorte dei suoi quattrocentocinquanta profeti, giurò di vendicarsi contro Elia e mandò a dirgli: «Gli dei mi facciano questo e anche peggio, se domani a quest’ora non avrò reso te come uno di quelli». Elia impaurito si alzò e se ne andò per salvarsi. Giunse a Bersabea di Giuda. Là fece sostare il suo ragazzo. Egli si inoltro nel deserto una giornata di cammino e andò a sedersi sotto un ginepro. Desideroso di morire, disse: «Ora basta Signore! prendi la mia vita, perché non sono migliore dei miei padri» (1 Re 19,2-4)
Bersabea è dal lato opposto di Izreel, luogo dove Elia aveva lasciato Acab e che rappresentava come una seconda capitale del regno. Non sappiamo se Elia fosse intenzionato a dirigersi verso il monte Oreb, o se vi si recò per caso, spinto dalla prostrazione e dalla paura. Quel che sappiamo è che Bersabea è un luogo legato alla storia di Abramo e di Isacco. Qui a Bersabea, Isacco aveva ricevuto l’ultima benedizione di Dio della sua vita (Gn 26, 23-25), qui, dopo aver lungamente lottato per la ricerca e lo scavo di pozzi, finalmente Isacco trovò l’acqua e la pace.
Questo luogo sacro assiste al crollo psicologico di Elia. La reazione di Gezabele, la mancata difesa del popolo avevano prodotto nel profeta l’amara consapevolezza che nulla era cambiato! La grande sfida del Carmelo fu assolutamente inutile: «Tutto è stato vano - fa dire Neher a Elia - la sfida e la risposta, il tentativo e il trionfo; non siamo andati avanti di un sol passo, ed io non sono migliore dei miei padri; dopo, come prima, eccomi solo.[…] A che pro proseguire il cammino, se è soltanto per fallire di nuovo?» (A. Neher L’esilio della parola).
Ed ecco che Dio interviene inviando a Elia un angelo il quale lo toccò e gli disse: «Alzati e mangia!» Egli guardò e vide vicino alla sua testa una focaccia cotta su pietre roventi e un orcio d’acqua. Mangiò e bevve e tornò a coricarsi. Venne di nuovo l’angelo del Signore, lo toccò e gli disse: «Su mangia, perché è troppo lungo per te il cammino» Si alzò, mangiò e bevve. Con la forza datagli da quel cibo, camminò per quaranta giorni e quaranta notti fino al monte di Dio l’Oreb.
Acqua, fuoco, roccia e focaccia, vale a dire farina e olio, questi elementi attraversano la vicenda del profeta come filo conduttore, ne accompagnano gli eventi e i sentimenti evocando di volta in volta la presenza provvidente di Dio, la sua gelosia, la sua collera e la sua premura.
Elia non se ne avvede, ma egli non vive per se stesso, il suo itinerario è l’itinerario che ogni membro del popolo dovrà percorrere per tornare al Signore. Egli è una sorta di guida nella notte, solitaria, percorre il cammino mentre tutti sono inconsapevoli di ciò che li attende. Il Signore si prende cura del corpo di Elia come si prenderà cura delle membra sofferenti del suo popolo. Lo sconforto, la stanchezza e la fame di Elia sono i sintomi che affliggono ogni uomo che si allontana dall’acqua della salvezza, dal pane della parola, dal fuoco dello zelo, dalla roccia che è Dio stesso, unica realtà solida e sicura in un mondo mutevole.
I commentatori cristiani scorgeranno nella misteriosa focaccia un’anticipazione del mistero eucaristico.

Ed ecco Elia giunto all’Oreb, il monte dove Dio apparve a Mosé nel fuoco di un roveto, il monte chiamato anche Sinai, dove il popolo ricevette le tavole della legge e nel corso di una solenne teofania tra lampi e fulmini, fuoco e fumo udì la voce del Signore eppure rimase in vita.
Ivi entrò in una caverna per passarvi la notte, quand’ecco il Signore gli disse: «Che fai qui Elia?» Egli rispose: «Sono pieno di zelo per il Signore degli eserciti, poiché gli Israeliti hanno abbandonato la tua alleanza, hanno demolito i tuoi altari, hanno ucciso di spada i tuoi profeti. sono rimasto solo ed essi tentano di togliermi la vita». Gli fu detto: «Esci e fermati sul monte alla presenza del Signore» Ecco il Signore passò. Ci fu un vento impetuoso e gagliardo da spaccare i monti e spezzare le rocce davanti al Signore, ma il Signore non era nel vento. dopo il vento ci fu un terremoto, ma il Signore non era nel terremoto. Dopo il terremoto ci fu un fuoco, ma il Signore non era nel fuoco Dopo il fuoco ci fu il mormorio di un vento leggero. Come l’udì Elia si coprì il volto con il mantello e si fermò all’ingresso della caverna. Ed ecco sentì una voce che diceva: «che fai qui Elia?». Egli rispose: «Sono pieno di zelo per il Signore degli eserciti, poiché gli Israeliti hanno abbandonato la tua alleanza, hanno demolito i tuoi altari, hanno ucciso di spada i tuoi profeti. sono rimasto solo ed essi tentano di togliermi la vita».
Sul monte Carmelo il Signore era stato al gioco: al silenzio mortale di Baal, aveva contrapposto una fiamma divorante capace di prosciugare le acque e incendiare legna bagnata. Sul monte Oreb il cammino di ritorno alle origini iniziato da Elia alle sorgenti del fiume Cherit giunge al punto culminante. Dio concede a Elia di ripercorrere le grandi teofanie con cui aveva tratto il popolo dall’Egitto: un forte vento d’oriente aveva diviso il mare. Giunto alle falde del monte Sinai il popolo aveva assistito a un terremoto, segno della presenza divina sul monte. Una colonna di fuoco aveva accompagnato il viaggio di Mosé nel deserto, la stessa colonna di fuoco che era passata in mezzo alle carcasse degli animali divisi da Abramo, la notte in cui stipulò l’alleanza con Dio. Forse la stessa fiamma con la quale aveva sconfitto Baal. Ora però Elia s’avvede che vento, terremoto e fuoco sono vuoti della presenza divina. Il Signore non era nel vento, né nel terremoto, né nel fuoco, il Signore si rivela ad Elia in una voce di silenzio che svanisce, come potrebbe essere tradotta l’espressione ebraica. Qôl demamâ daqqâ: voce del tenue mormorio.
La strada intrapresa sul monte Carmelo nella lotta contro Baal si rivela fallimentare. Ecco qui la risposta all’inquietante domanda del precedente capitolo: se Dio non avesse risposto non sarebbe accaduto nulla. Avrebbe anche potuto non rispondere il Signore nella sfida contro i profeti di Gezabele, perché il Signore non era in quel fuoco.
É tempo ormai che il popolo cresca, Israele non è più quel fanciullo chiamato dall’Egitto, come lo dipingerà Osea, il popolo entra nell’adolescenza del suo rapporto con Dio. Vive lo sconcerto della maturazione, si ribella al Padre, si affaccia al mondo che lo circonda, lo vuole esplorare e ne subisce il fascino, ma non è più tempo per lui di interventi vistosi. Le forze della natura sono sottomesse all’imperscrutabile agire di Dio, ma il Signore non è nelle forze della natura. Il Signore parla al cuore Il comando del Dio di Israele è uno solo: shemà Israel! Ascolta Israele, ascolta quella voce sottile di silenzio che parla al tuo cuore. Questo è il cuore del messaggio di Elia. Il silenzio di Dio non è semplicemente castigo, ma è richiamo profondo, sottile che sale dal di dentro del cuore umano. Un richiamo che appartiene al suo essere a somiglianza di Dio, è nostalgia di quella brezza leggera che ventilava l’Eden quando Dio passeggiava con Adamo al calar del sole.

Che fai qui Elia? La domanda apre e chiude questa straordinaria esperienza del profeta, simile a quella di Mosé per la circostanza, (Es 33, 22) ma superiore ad essa per l’intensità. I simboli di questa esperienza saranno quelli applicati allo Spirito Santo, presenza tenace e silenziosa di Dio nel cuore dei credenti. Che fai qui Elia? Chiede il Signore: Che cerchi? Non vinco nel fuoco, vinco nel soffio leggero dell’amore.

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