Breve storia dell'icona e dei pittori di icone 2
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1. Il pittore di icone - Andrej Rublëv
L'oggetto che l'iconografo contempla è del tutto diverso da quello che un pittore di soggetti religiosi dipinge; egli non deve seguire le sue fantasie ma la tradizione: l'icona, infatti, deve essere conforme alla Sacra Scrittura, deve autenticamente trasmettere la rivelazione divina nella realtà storica! L'iconografo non deve seguire l'immaginazione, ma deve leggere i modelli originari e contemplare i prototipi. Per questo l'indicazione frequente era quella di seguire gli iconografi antichi, i modelli antichi, senza inventare nulla e senza raffigurare nulla secondo le proprie idee. L'icona, infatti, mostra il corpo "spirituale", cioè le conseguenze nella carne dell'Incarnazione di Cristo, "l'immagine che Dio ha di me nel crearmi", "l'immagine del carattere della bellezza di Dio" impressa in ciascuno di noi col Battesimo, dicevano i Padri della Chiesa. Pietro Crisologo, dottore della Chiesa del V secolo ripeteva: "O uomo, perché hai di te un concetto così basso quando sei stato tanto prezioso per Dio? Ha stampato in te la Sua immagine, perché l'immagine visibile rendesse presente al mondo il Creatore invisibile".
Contemplare è il verbo adeguato, non basta vedere: contemplare vuol dire osservare a lungo, con stupore, ammirazione, interesse; contemplare ha nella sua struttura la parola "templum", che era lo spazio sacro agli Dei, quindi porta con sé il significato della sacralità, dell'Essere che si rende presente in qualche modo in tutte le creature: noi nell'icona contempliamo gli archetipi, cioè i pensieri di Dio negli esseri e nelle cose.
Andrej Rublëv (1360 - 1430) è l'iconografo più noto.
Era noto già in vita e per questo possiamo attribuirgli alcune icone famose, come la "Trinità", perché tutte le icone non erano firmate (e non si dovrebbero firmare nemmeno adesso).
I contemporanei davanti alle sue opere dicevano: "Vediamo i cieli aperti e gli splendori della divinità".
Chi era? Era un monaco, iconografo per obbedienza monastica, per servizio alla Chiesa, beato e poi santificato nel 1988, discepolo del grande maestro bizantino Teofane il Greco, e discepolo del santo abate San Sergio di Radonez che in quegli anni così difficili risollevò lo spirito del popolo russo e gli ridiede fiducia in se stesso.
L'epoca in cui visse fu drammatica: pestilenze, devastazioni, incendi, la conquista da parte dei Tartari... e la ricostruzione, con pietra e non più legno, a Mosca. Da san Sergio imparò che nel disegno della realtà c'è l'unità, non la divisione, ma occorrono l'amore e la disponibilità al sacrificio soprattutto per i propri amici ("Contemplando la Santissima Trinità, vincere l'odiosa divisione del mondo" era l'indicazione di san Sergio).
Era silenzioso, mansueto, sincero. Prima apprendista in brigata, imparava con gradualità: ascoltava e metteva in pratica.
Era legato da profonda amicizia con il monaco Daniel, anche lui iconografo, ed entrambi vivevano nel monastero Andronikov, alle porte di Mosca.
Nel 1423 gli fu chiesto di affrescare la cattedrale costruita sulla tomba di San Sergio e di dipingere la celebre icona della Trinità: il modulo di costruzione era il diametro del nimbo, segno della santità, e anche ciò sta ad indicare che a definire l'uomo è la santità, la somiglianza a Dio, non altro!
L'icona è stata progettata di grandi dimensioni: sulla tavola è stata applicata una tela, e su questa uno strato compatto e sottile di gesso, poi levigato; i bordi, cioè la "cornice" e la parte superiore della "culla", che è lo spazio scavato nella tavola dove l'iconografo dipinge le sacre immagini, sono già coperti di oro in fogli, che brilla… Il monaco Andrej ha già schizzato i contorni di tutta la raffigurazione, in cui non ha messo che l'essenziale, la cosa principale; diversamente da tutta la tradizione precedente, c'erano soltanto gli elementi indispensabili dell'antico racconto biblico: la casa di Abramo sulla sinistra, l'albero a raffigurare il querceto di Mamre, la montagna, e davanti tre angeli - angelo in greco significa messaggero - rivolti l'uno all'altro in un silenzioso colloquio, immagine misteriosa dell'unitrinità divina, in tre persone un unico essere...
L'icona da lui dipinta sarebbe stata accolta e compresa come intimamente vicina dai suoi contemporanei e dall'uomo del nostro tempo.
Rublëv morì nel 1430, il 29 gennaio; fu deposto al centro della cattedrale del Salvatore appena costruita all'interno del monastero, e di lì a poco morì anche l'amico Daniel, sepolto al suo fianco.
Il pittore di icone era un monaco, che univa allo studio della pittura la penitenza e l'ascesi spirituale.
Il monaco iconografo, consacrato dal suo vescovo e benedetto dal suo monastero per diventare pittore di icone, passava un mese in digiuno e in preghiera prima di cominciare la sua opera.
La prima icona era sempre l'icona della Trasfigurazione, cioè la manifestazione della presenza di Dio in tutte le cose, ed egli dava il primo tocco di pennello in ginocchio, all'alba del ventunesimo giorno, al primo raggio del sole.
L'iconografo non cerca un suo concetto di bellezza, ma la verità che discende nell'icona e si riveste delle sue forme. Anche oggi dipingere un'icona non è solo arte o tecnica, ma indica un compito e un cammino in nome di qualcosa di più grande di noi e anche del nostro dipingere: in nome della Chiesa
2. Testimonianza di una iconografa: il modo di dipingere l'icona
Io faccio parte di una fraternità di iconografi che cerca di vivere così: è la fraternità di iconografi di Russia Cristiana, a Seriate, in provincia di Bergamo. Dai testi antichi ci è stata tramandata la preghiera che un iconografo recitava prima di accingersi all'opera, preghiera che anche oggi recitiamo presso la Scuola iconografica di Seriate:
"O Divino Maestro, fervido artefice di tutto il creato,
illumina lo sguardo del tuo servitore,
custodisci il suo cuore, reggi e governa la sua mano,
affinché degnamente e con perfezione possa rappresentare la Tua immagine,
per la gloria, la gioia e la bellezza della tua santa Chiesa".
Il pittore di icone, quindi, era un uomo di fede che spendeva tutta la sua vita per testimoniare la verità che aveva incontrato, la presenza di Dio in tutte le cose. Possiamo chiamarlo "un pennello nelle mani di Dio".
Il compito di un'icona è riflettere la LUCE DI DIO, cioè di esprimere il cuore delle cose, il mistero che le fa vivere, il fondamento da cui nascono.
Il pittore di icone si rende conto di rappresentare qualcosa di molto più grande di lui. In ogni icona viene ricavata a colpi di scalpello una specie di cornice, una "finestra" quasi, che crea un distacco tra noi uomini e la divinità rappresentata, la "culla".
Il fondamento della bellezza dell'icona è il RITROVAMENTO DEL VOLTO DI DIO, lo splendore del vero, capace di donare significato a tutto l'uomo e di rispondere fino in fondo ai suoi desideri.
Il centro dell'icona è LA LUCE. Pavel Florenskij, grande pensatore e monaco del secolo scorso, giustiziato dopo essere stato internato in un gulag nelle isole Solovki, in Unione Sovietica, disse: "La pittura iconica raffigura le cose come prodotte dalla luce e non come illuminate da una fonte di luce".
Anche i volti vengono dipinti partendo dai colori più scuri per arrivare a quelli più chiari, con un preciso significato teologico: l'apparizione dei lineamenti segue una progressione che riproduce il cammino dell'uomo verso la "nuova creatura", la creatura nella luce di Dio.
"L'icona si dipinge sulla luce e da qui emerge tutta l'essenza della pittura iconica. La luce, come vuole la migliore tradizione dell'icona, si dipinge con l'oro, cioè si manifesta appunto come luce, pura luce. Ogni rappresentazione emerge in un mare di dorata beatitudine, lavata dai flutti della luce divina" (Pavel Florenskij).
L'oro è un elemento fondamentale nell'icona perché è il segno della luce divina che trasfigura tutta la realtà.
Diceva sempre Florenskij: "Nella pittura iconica le ombre non hanno ragion d'essere: il pittore di icone non si occupa di faccende tenebrose e non dipinge ombre; procede dal tenebroso al luminoso, dall'oscurità alla luce".
Lo starcy Evagrio il monaco scriveva:
"Se vuoi conoscere chi sei, non guardare a quello che sei stato ma all'immagine che aveva Dio nel crearti" che è la santità.
Il santo in russo si indica con una parola che significa somigliantissimo.
Santa Caterina da Siena diceva una cosa simile:
"Noi siamo immagine della tua divinità e Tu sei immagine della nostra umanità".
L'icona si pone come risposta al senso della vita, incarnando la visione di una verità e di una concezione del mondo nelle forme e nei colori. Non è una semplice immagine, ma una "finestra sul mistero", luogo della Presenza Divina. Guardando l'icona di un santo, noi non vediamo il suo "ritratto", ma proprio la sua umanità trasfigurata.
Le regole dell'arte iconografica non sono create dai pittori, ma custodite e tramandate dai Padri della Chiesa, depositari della Verità. Anche per questo motivo l'iconografo non firma mai la sua opera.
La conoscenza della geometria è necessaria per determinare la struttura ed i moduli di composizione delle icone, ma bisogna ricordare che le regole della composizione non seguono quelle della cosiddetta "prospettiva rinascimentale".
I colori, terre miscelate con tempera all'uovo, vengono usati secondo la loro capacità di esprimere l'essenza divina. Ad esempio nelle icone della Madre di Dio i colori della veste e del mantello sono l'inverso dei colori di quelli di Cristo. La porpora della veste di Cristo esprime la divinità, mentre l'azzurro del mantello la sua umanità. La madre di Dio, discendente di Adamo e quindi umana, ma divinizzata da Cristo, ha la veste azzurra e il mantello porpora. Il suo linguaggio è simbolico.
Non è mai l'icona che è bella, ma è bella la verità che vi discende e si riveste delle sue forme.