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Dopo il divorzio

Fonte:
La Prealpina 12.05.04



Il 12 maggio 1974 quasi il 60% degli Italiani diceva no all'abrogazione della legge sul divorzio, in un referendum rimasto storico per le emozioni e le passioni contrastanti che ha scatenato nell'anima del Paese. Chi ricorda quelle accese giornate ripensa ai due fronti, quello di chi vedeva nel divorzio una grande libertà civile e l'inizio dell'emancipazione civile, e quello di chi scorgeva nella legislazione divorzista l'inizio di un pericoloso processo di disgregazione dell'istituto familiare che avrebbe condotto ad una vera crisi di civiltà. Oggi, dopo trent'anni e circa 800.000 divorzi, qualche considerazione si impone, perché, se è vero che il costume precede il diritto, è altrettanto certo che in questo caso il diritto ha di fatto mutato in profondità l'approccio comune all'esperienza della vita matrimoniale.
Al di là dei casi pietosi di mogli violentate da mariti ubriachi o di logoranti vite di coppia esaurite nell'amore, oggi il divorzio ha perduto molti dei suoi toni traumatici creando la tendenza a separarsi "in maniera civile" con una correttezza formale che normalizza la rottura affettiva, come se si trattasse solo di rescindere un contratto che prevedeva già nelle sue clausole la possibilità per i contraenti di recedere. Nel migliore dei casi una buona mediazione riesce anche ad evitare aspri scontri giudiziari e a trovare soddisfacenti accordi economici tra i coniugi con eleganti compromessi nella "gestione" dei figli, anche se il "lutto" della sconfitta rimane poiché come si è in due a sposarsi, così si è indissolubilmente in due a sancire la fine dell'avventura coniugale.
Tuttavia affiora chiaramente che il nodo cruciale non è rendere giuridicamente facile la fine di unioni già finite, ma piuttosto di "curare" meglio la consapevolezza del valore dell'unità coniugale che è alla base della famiglia. Infatti la famiglia, che una certa sociologia dava già per morta e sepolta, si ripropone più che mai oggi sotto il segno di un'indispensabilità culturale e sociale che è riconosciuta pressocchè da tutti e che la pone anzi come nuova protagonista.
Oggi c'è voglia di famiglia, ma nella coscienza delle giovani coppie sembra scomparire l'idea della definitività di quel legame uomo-donna che solo la Chiesa continua a difendere come un bene per tutti. Ma è inevitabile che l'idea stessa di un "rapporto a termine" indebolisce l'approccio all'altro sesso, crea incertezza ed instabilità nel progettare il futuro, rende la coppia tendenzialmente sterile perché incerta della continuità genitoriale. Il fatto che il patto coniugale sia avvertito come facoltativo dissacra l'impegno alla fedeltà e consegna ai coniugi l'immagine che qualunque relazione può iniziare e finire a piacimento senza vincoli inscindibili, confermando che in fondo non c'è nulla da custodire per cui valga la pena di lottare ad ogni costo. Avviene così che la fedeltà nel rapporto perde la sua sacralità, indebolendo contemporaneamente anche la fiducia negli altri.
V'è da concludere che non solo il massiccio ricorso al divorzio non ha risolto l'urgenza di stabilità e di certezze che una società in continuo movimento richiede, ma ha decisamente alimentato un senso di insicurezza e di fragilità delle relazioni, facendo forse nascere la nostalgia per quell'eternità dell'amore romantico che gli innamorati avvertono nella fase iniziale della loro avventura. Ma, al di là di qualunque tono trionfalistico o polemico legato alla ricorrenza del referendum, è importante riconsegnare alla società il compito di garantire le condizioni oggettive perché la coppia possa maturare e crescere, così da rimuovere almeno gli ostacoli esterni che minacciano la stabilità della vita coniugale.

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