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Condurre un giovane ad essere adulto: un compito straordinario e straordinariamente difficile - 2

Autore:
Mereghetti, Claudio
Fonte:
CulturaCattolica.it
"Ci sono due modi per salvarsi dall'inferno, uno è facile e riesce a molti: adeguarsi all'inferno fino a diventare inferno e non vederlo più; l'altro è più difficile: cercare in mezzo all'inferno ciò che non è inferno e farlo durare, e dargli spazio". Pubblichiamo questa conferenza del prof. Claudio Mereghetti alla Residenza Viscontea, del 26 maggio 2006

Quando, però, si tratta di trasmettere una simile capacità di progettare la propria vita ai propri figlie e figlie, tutto diventa insieme straordinario e straordinariamente difficile. Perché quando siamo alle prese con i nostri figli e figlie siamo alle prese con un dono prezioso che non ci appartiene, né ci potrà appartenere mai, perché ci è stato in realtà solo affidato. Qualcuno si è fidato di noi perché i nostri figli sviluppassero, trasformandole in atto, tutte le loro potenzialità.
Non capita anche a voi invece di pretendere che ci amino? Di finire con l’assumere la posizione, i toni, a volte persino le parole, che in quel famoso film (Indovina chi viene a cena?) pronuncia il padre del medico nero, interpretato da Sidney Poitier? (Che faceva il postino e diceva di aver fatto non ricordo più quante migliaia di chilometri perché il figlio diventasse medico; e lui gli risponde semplicemente, un po’ a muso duro in verità: chi te lo ha chiesto?).
Finiamo con il diventare come Re Lear che chiede alle sue figlie, per dar loro la dote e un terzo del suo regno, di dichiarargli quanto lo amino. Gonerilla e Regana gli rivelano la prima un amore che va al di là di qualsiasi misura e la seconda di trovare in esso l’unica sua felicità. Tra lo sgomento di Cordelia, la più giovane, che al padre risponde di non poter dire nulla e di fronte alle proteste del padre continua così:

“O mia sfortuna: non riesco a sollevare il peso del mio amore fino alle mie labbra; amo vostra Maestà secondo il nostro vincolo, né più né meno. Mio buon signore, da voi fui generata, allevata ed amata. Io ripago quei debiti al loro giusto valore: vi obbedisco, vi amo, vi onoro sopra tutto. Perché le mie sorelle hanno mariti, se dicono di amare voi soltanto? Se mai mi sposerò, il signore la cui mano accetterà il mio pegno, porterà via con sé la metà del mio amore, metà delle mie cure, e del mio debito. Non mi sposerò certo come le mie sorelle, per amare soltanto mio padre.
Parli col cuore?
Sì mio buon signore.
Tanto giovane e già tanto dura?
Tanto giovane, mio signore, e tanto schietta.
E Lear le dice così sia. La tua schiettezza sia la tua dote… io qui ripudio ogni cura paterna… mia figlia di un tempo” [1].

Re Lear ripudia l’unica figlia che lo ama di un amore sincero, come scoprirà solo più tardi. Tipi strani gli adulti: pensano di poter insegnare ai giovani tutto della vita e poi sono i primi a non riconoscere la verità e l’ipocrisia, addirittura arrivano a preferire l’ipocrisia di una dichiarazione falsa, piuttosto che confrontarsi con la sorprendente verità di un figlio, una figlia che comincia a vivere la sua storia.
Generare un figlio non significa cercare di impossessarsi del suo affetto, pretenderlo; ma prepararsi a vederlo andare da solo. Educarlo ad affrontare la vita non è altro che insegnargli a fare a meno di noi, perché è questo l’unico modo perché faccia da solo. Generare un figlio è un atto di separazione. Innanzitutto alla nascita, ma poi è separarsene ancora, e ancora, e ancora. Prepararlo alla vita è come svolgere il compito dell’allenatore di un paracadutista: si può spiegare tutto, si può persino riuscire a dire tutto quello che va detto, ma prima o poi bisogna mollare la presa, e lasciare che l’allievo si butti da solo, conoscendone i rischi, ma fidandosi delle capacità di chi ci è stato a sentire.
Spesso pensiamo che il nostro compito sia invece quello di rendere loro tutto più semplice, meno doloroso, ma ci sbagliamo: e l’errore nasce da una forma di amore che, se non è egoistico come quello di Re Lear, gli assomiglia però molto. Mostriamo in questo nostro star loro addosso la paura che abbiamo di sentirci inutili, o il bisogno di sentirci indispensabili. L’adolescenza prima, e l’età giovanile poi, chiedono ai genitori di degenitorizzarsi: ci costringono a rinascere come genitori nuovi. La parola che più spesso adolescenti e giovani utilizzano è “uscire”. Si direbbe che siano come feti, che abbiano questo istintivo desiderio naturale: e come il feto, se restassero dove si trovano, anziché trovarsi protetti, finirebbero col morire. Restare nella famiglia e obbedire a mamma e papà sembra loro impossibile: è necessario che assumano un’altra pelle (come i gamberi) e che lo facciano assumendosene la responsabilità in prima persona [2].
Per farlo occorre pensare, ma con parole nuove, perché quelle di prima sono vuote sembrano inadeguate, infantili.
Qualche volta ai giovani sembra proprio che spegnere il cervello, non pensare, sia la soluzione migliore. Gli adulti, in questi casi, si sentono traditi e insistono per penetrare nei pensieri dei propri figli adolescenti e giovani, ma è un errore. Quel silenzio non è la soluzione migliore, ma in certi momenti è l’unica e va rispettata. Non si capirebbe il successo della canzone di Vasco, se non fosse per il fatto che dice una cosa vera e veramente vissuta da tanti di loro.
Li avrete visti anche voi isolarsi, con le cuffie, davanti alla play-station, al computer, con le chat. L’adulto deve però sapere che quello non è uno stadio definitivo, deve dimostrare fiducia nella capacità del giovane di camminare da solo. Come l’allenatore del paracadutista [3] deve mostrare fiducia nella capacità dell’allievo di aprire il paracadute: l’importante è aver controllato i materiali, piuttosto.

Offrire valori prima che opportunità
Che nella vita di tutti i giorni sono le occasioni che noi genitori offriamo ai nostri figli di incontrare nella quotidianità valori veri. Spesso invece siamo più preoccupati di offrire loro opportunità, ma dovremmo preoccuparci di essere per loro il primo esempio di una vita vissuta pienamente, nel dolore e nella sofferenza come nella felicità, fondata sulla speranza e non scioccamente ottimista. Con l’esempio e con le parole, mostrando che i valori sui quali andiamo costruendo il nostro essere adulti ogni giorno non seguono le mode, ma sono intimamente vissuti. Anche quando si deve andare controcorrente. Non è facile: che cosa occorre per farlo? Ho trovato la risposta in una splendida pagina di Thomas Mann, all’inizio della Montagna incantata.
“L’uomo non vive soltanto la sua vita personale come individuo, ma – cosciente o incosciente – anche quella della sua epoca e dei suoi contemporanei, e qualora dovesse considerare dati in modo assoluto e ovvio i fondamenti generali e obiettivi della sua esistenza ed essere altrettanto lontano dall’idea di volerli criticare quanto lo era in realtà il buon Castorp, è pur sempre possibile che senta vagamente compromesso dai loro difetti il proprio benessere morale. Il singolo può avere di mira parecchi fini, mete, speranze, previsioni, donde attinge l’impulso ad elevate fatiche e attività; se il suo ambiente impersonale, se l’epoca stessa, nonostante l’operosità interiore, è in fondo priva di speranze e prospettive, se furtivamente gli si rivela disperata, vana, disorientata; e al quesito formulato, coscientemente o no, ma pur sempre formulato, di un ultimo significato, ultrapersonale, assoluto, di ogni fatica e attività, oppone un vacuo silenzio, ecco che proprio nel caso di uomini dabbene sarà quasi inevitabile un’azione paralizzante di questo stato di cose, la quale, passando attraverso il senso morale psichico, finisce con l’estendersi addirittura alla parte fisica e organica dell’individuo. Per aver voglia di svolgere un’attività notevole che sorpassi la misura di ciò che è soltanto imposto, senza che l’epoca sappia dare una risposta sufficiente alla domanda “a qual fine?”, occorre o una solitudine e intimità morale che si trova di rado ed è di natura eroica, o una ben robusta vitalità”.

Non essere soli – Ambienti liberi e di pensiero forte
Difficile riuscirci se si è soli. Soprattutto oggi. Vivendo in una società come la nostra, che fa della parola uno strumento di manipolazione, che si fonda su un pensiero debole al quale è così facile assuefarsi.
Una società che si fonda sulla competitività. Ma la competitività, soprattutto alla vigilia dell’inserimento nel mercato del lavoro, può erodere. I giovani vivono di speranza e chiunque sia pieno di possibilità e di speranza, di voglia di fare e di vivere… ma non può lavorare corre seri rischi. Occorre che gli adulti per primi siano convinti che non trovare lavoro non è vergognoso. Che un insuccesso negli studi non è una sconfitta definitiva. E che sappiano trasmetterlo ai propri figli e figlie, facendo in modo che non solo da questo dipenda la loro emancipazione dalla famiglia. E’ anche questa una prova della nostra capacità di degenitorizzarci.
Manipolazione, assuefazione e competitività. Credo siano questi gli ostacoli al compito educativo delle famiglie con figli adolescenti e giovani. Per questo noi genitori dobbiamo cercare quegli ambienti che possano affiancarci in questo compito: ambienti dove i nostri figli possano respirare un’atmosfera di libertà, incontrando adulti diversi dai genitori che vivono fino in fondo i valori nei quali credono. Ambienti di libertà e di pensiero forte. Come non ce ne sono molti, ma che pure ci sono, e che però una volta trovati i nostri figli devono scegliere in prima persona, in piena libertà, e che devono godere della nostra piena fiducia.
Ambienti come quello della residenza Viscontea, che sono un formidabile supporto per i nostri figli nell’affrontare i loro cambiamenti, ma che sono soprattutto indispensabili per costringere i genitori a non accontentarsi di quanto fanno, ad impegnarsi con loro stessi, per sviluppare nei propri figli e figlie tutte le loro potenzialità.
Perché spegnere il cervello, in realtà, non è riposare, né rilassarsi in vista di qualche impegno più gravoso, ma è smettere di vivere. E’ rimanere al gancio della famiglia, è impedirsi di crescere. Mentre vivere è sempre cercare il senso di quello che si fa, della propria storie e della propria vita. Un senso che ciascuno di noi ha trovato da sé, e che dunque anche i nostri figli devono, perché possa veramente essere cosa loro, trovare da sé. Fornirglielo, significherebbe impedire loro di pensare, significherebbe spegnere il loro cervello.
Non c’è genitore che voglia questo per il proprio figlio, per la propria figlia. Perché questo sarebbe l’inferno. E non c’è genitore che possa volere per il proprio figlio l’inferno e allora l’unica cosa che vale veramente la pena di insegnare ai nostri figli, alle nostre figlie, è invece come uscire dall’inferno. Il ruolo che ci compete è quello di guida verso la santità. Come Virgilio e Beatrice hanno fatto con Dante.
Ma noi, come possiamo farlo?

Inferno e non inferno
Ce lo svela Italo Calvino nelle Città invisibili.
“Ci sono due modi per salvarsi dall’inferno, uno è facile e riesce a molti: adeguarsi all’inferno fino a diventare inferno e non vederlo più; l’altro è più difficile: cercare in mezzo all’inferno ciò che non è inferno e farlo durare, e dargli spazio”.

Cercare in mezzo all’inferno ciò che non è inferno e farlo durare, e dargli spazio.
Quello che non è inferno nell’inferno è il senso della nostra vita, o come lo chiama Victor Frankl, il sentido de la vida (e lo spagnolo in questo caso dice molto più di quanto non dica la traduzione in italiano). Una volta trovato il sentido de la vida, i nostri figli sapranno la rotta. Non si faranno manipolare, nemmeno da coloro che non credono ai miracoli e che diranno loro, come scrive G.K. Chesterton che “l’Islanda non esiste perché non l’hanno vista che degli stupidi marinai e i marinai sono stupidi soltanto perché dicono di aver visto l’Islanda” [4].

Noi genitori dobbiamo convincerci che in un mondo che all’Islanda non crede, allora… è meglio avere figli stupidi, ma che l’Islanda la vedono. Perché sviluppare una personalità formata e profonda è possibile, ma occorre sapere che non sono sufficienti delle capacità (alla cui formazione e miglioramento spesso i genitori dedicano le loro migliori energie) o delle competenze (come recita la scuola di oggi), occorre soprattutto imparare a scegliere, come spiega Silente ad Harry quando al termine della Camera dei segreti gli rivela che noi non siamo solo le capacità che abbiamo, siamo le scelte che facciamo. E che proprio perché lo ha scelto lui, Harry è a Grifondoro e non a Serpeverde. Scegliere, non spegnere il cervello: l’Islanda… Grifondoro… il senso della vita.

Note

[1] W. Shakespeare, Re Lear, atto I, scena I.

[2] Il concetto di de-genitorizzazione e la metafora del gambero si devono agli studi di Francoise Dolto.

[3] L’esempio si trova in P. Crepet, Non siamo capaci di ascoltarli, Einaudi, 2001.

[4] G.K. CHESTERTON, Ortodossia, Morcelliana, 1980.

File allegato
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