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Educazione: quello che manca

Fonte:
CulturaCattolica.it
Spesso l'educazione finisce per essere solo "istruzioni per l'uso", come usare della vita, senza farsi troppo male, come se bastasse questo per essere felici.

Ma la felicità esige risposte certe, un bene certo, una strada indicata, non ci serve essere preservati dal dolore, non è il dolore che spaventa, non è la morte: è che la vita sia priva di senso che rende la vita stessa inutile.

Il mio caro amico G.K. Chesterton scriveva, all’inizio del secolo scorso, che il grande vuoto nell’etica moderna è nell’assenza “di vivide immagini di purezza e trionfo spirituale”. Chesterton notava, per esempio, che nell’opera di Ibsen il male è precisamente individuato, mentre il criterio del bene non è affatto dichiarato: “Noi sappiamo che l’eroe degli Spettri è pazzo, e sappiamo perché è pazzo. Sappiamo anche che il dottor Stockman è sano di mente, ma non sappiamo perché sia sano di mente. Ibsen non dichiara di sapere come si ingenerino la virtù e la felicità… Non ci sono virtù cardinali nell’ibsenismo. Non c’è alcun uomo ideale in Ibsen”. E a quel tempo c’era già qualcuno, come George Bernard Shaw, che apprezzava in Ibsen proprio questa assenza di una chiave permanente alla virtù. La regola aurea doveva essere insomma il fatto che non c’è alcuna regola.


E’ passato un secolo, e il problema non si è spostato di una virgola. Oggi come non mai siamo informati molto bene riguardo al male, al degrado, alla perversione, ai problemi dell’umanità; oggi come allora, però, mancano vivide immagini di bene; e oggi come allora c’è chi continua a dire che in fondo è bene così, perché l’alternativa è fissare paletti, limiti alla libera espansione del capriccio umano a partire da un pensiero “forte”, un pensiero cioè che sa dire dove l’uomo tende, dove deve andare per essere buono. Ma chi è in possesso di un tale pensiero è per definizione un essere potenzialmente pericoloso, in quanto tende ad “imporre” la propria visione della vita.

Siamo allora al punto di partenza, in una situazione di completo stallo. Prendiamo l’educazione: un giovane ha bisogno di una strada chiara da seguire, meglio ancora, di “vivide immagini di purezza e trionfo spirituale”; ma gli educatori moderni (quelli che ragionano alla Shaw) non sono in grado di rispondere a questo bisogno.

Tutt’al più possono fornire delle “istruzioni per l”uso”, delle ricette per farsi male il meno possibile: fai sesso come e quanto ti pare, ma usa il preservativo; rincoglionisciti quanto vuoi in una discoteca, ma prima di prendere la macchina aspetta un attimo, così non vai a sbattere; non bere troppo, che ti fa male; è meglio se non ti fai, perché “la droga ti spegne”, ma se proprio ti devi fare, almeno usa una siringa nuova, e via dicendo…

Le campagne informative e sociali studiate dallo Stato per aiutare i giovani (spot pubblicitari, manifesti e opuscoli nelle scuole) non servono notoriamente a niente. Gli slogan sono ben fatti, ben studiati, anche divertenti, ma, alla fin fine, non motivano, non affascinano, perché parlano solo al cervello e, tutto sommato, assomigliano molto al predicozzo dell’adulto, o alla ricetta del medico curante. Per poi prendere la medicina amara serve una forza che uno slogan o una campagna informativa non potrà mai dare.

In realtà quello che manca è proprio quello che diceva Chesterton: l’incontro con qualcuno che sia affascinante nel momento stesso in cui va controcorrente, l’incontro con qualcuno che ti testimonia con la sua vita e ti fa scoprire (userò un’espressione volutamente elementare, non si scandalizzino i “professorini” che leggono) che la via del bene esiste ed è bella.

Per essere più chiari: l’incontro con un medico che parla a scuola della droga, delle varie tipologie e dei loro effetti, in genere provoca tre cose: indifferenza, disgusto, curiosità. L’incontro con alcuni giovani che in una comunità terapeutica si stanno recuperando dalla droga provoca invece stupore, interesse, speranza, in genere un completo ribaltamento interiore. Non parliamo poi dell’incontro con un prete che ti racconta come ha iniziato, come ha incontrato e recuperato il primo tossicodipendente.

La scuola è stata molto brava a far vedere il male. Tanto per restare in tema, a quasi tutti i ragazzini delle scuole medie si è fatto vedere il film “Chistiane F. e i ragazzi dello zoo di Berlino”. La scuola fa fare un bel viaggio nell’inferno e poi, quando va bene (cioè quando c’è un professore che accompagna la visione del film con una riflessione) ti dice: “visto? Quello è l’inferno. Sta’ lontano!”, istruzioni per l’uso, appunto. Ma cosa sia il bene, e come si possa costruire una vita sul bene, e se ne valga la pena, questo resta un punto piuttosto oscuro.

Risultato? Avremo ragazzini più “coscienti”, ma più impauriti, più timorosi, o magari addirittura più attratti dal rischio del “provare”. Sicuramente paralizzati dal non sapere letteralmente dove andare.

Come Dante, all’uscita della selva oscura: il colle col sole che splende in cima è proprio davanti a lui e tutta la sua razionalità e il suo buon senso gli dicono che basterebbe scalarlo. Tuttavia non riesce a muovere un passo. Serve una motivazione diversa. C’è bisogno di qualcuno di cui Dante si fida e di cui ha stima (Virgilio), disposto a dargli una mano. C’è bisogno di sapere che tutto il Cielo è preoccupato per lui, a cominciare dalla donna che ha sempre amato. C’è bisogno, insomma, di “vivide immagini di purezza e trionfo spirituale” che gli siano amiche. Ed è così che si salva.

Non è l’analisi e la conoscenza accurata della selva che ti tira fuori. E’ una mano affascinante ed amica alla quale capisci, con tutto te stesso, che vale la pena di affidarti.

Sarebbe ora di dare ai nostri giovani qualcosa di più e di diverso dalla semplice conoscenza del male.

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