Storie di normale accoglienza - 1
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Perché confrontarsi sull'educazione aiuta ad essere "educati" prima che "educatori".
Edimar
L’accoglienza deve essere il gesto quotidiano di chi vive la normalità, quando in una società “accogliere” è un gesto speciale, da eroi, da gente “non comune”, vuol dire che quella società ha perso “il cuore”, ha indirizzato le sue energie e il suo impegno verso una meta che l’ha distratta dal reale, dall’essenziale.
Per questo voglio riproporvi alcune storie che sembrano essere un’eccezione, forse lo sono, ma se lo sono è perché abbiamo perso tutti la capacità di essere per primi “accoglienti” nei confronti di chi ci sta accanto.
Dai lavori del seminario di Salsomaggiore per i responsabili dell’Associazione (15-17novembre 2002), ecco alcuni stralci della relazione di apertura, la testimonianza appassionata di Mario Dupuis, che dettaglia i fattori determinanti del lavoro educativo condotto nella sua esperienza di accoglienza.
La mia famiglia insieme ad un’altra, da due anni ha aperto a Padova una struttura di accoglienza chiamata “Edimar”. Con noi abitano quattro ragazzi adolescenti e durante il giorno ne girano una quarantina. Quelli che stanno stabilmente da noi hanno necessità di rimanere per un periodo più o meno lungo lontano dalla famiglia di origine, oppure la famiglia di origine non c’è più e hanno raggiunto un’età in cui l’adozione o l’affido risultano impraticabili. Durante il giorno vengono quelli che, pur avendo una famiglia e un luogo in cui tornare per dormire la sera, soffrono di una povertà enorme dal punto di vista educativo. Noi siamo in prima linea con questa età così drammatica, così entusiasmante e affascinante, ma anche ingrata, come l’età adolescenziale.
Come diceva Giancarlo Cesana al Meeting di Rimini, proprio introducendo la Mostra “La dimora possibile”, l’accoglienza non è un’eccezionalità e che lo sia diventata, invece, è uno degli aspetti che dimostra il degrado della nostra società. È un degrado di cui respiriamo ogni giorno il fumo… molti ci vengono a trovare e sembra che vengano a trovare degli eroi di frontiera (secondo me, invece, quello che noi facciamo è una cosa molto semplice: dico sempre che se sono riuscito a farlo io vuol proprio dire che possono farlo tutti), sembra tutto eccezionale e siccome la vita è fatta della normalità, della obbedienza alla normalità, è improponibile, se non per persone particolari. E spesso si sente dire: “Io devo rispondere al mio quotidiano”: ma in realtà il quotidiano non è quello che penso io, a mia immagine e somiglianza, ma è quello che Dio mi fa incontrare: per cui se quel giorno incontro un ragazzo che mi dice: “Dammi le 500 lire del tuo carrello”, è quotidiano quello, esattamente come è quotidiano mio figlio che vedo alzarsi tutte le mattine a casa mia. Ma Giancarlo Cesana sottolineava un passaggio ancora più interessante, che si accoglie perché si è rifatti, perdonati, ricostituiti: cioè che l’accoglienza, in fondo, è solo un’esperienza di gratitudine. E se penso alla storia mia e della mia famiglia con gli avvenimenti che ci sono capitati, penso proprio che quello che facciamo, è solo per una gratitudine. Non la gratitudine per una cosa che ci è accaduta, ma per qualcosa che accade ora. Perché l’esperienza di essere continuamente rifatti, perdonati, ricostituiti o accade ora, in questo momento, oppure che sia accaduta ieri non dice nulla al nostro presente, se non farci vivere un po’ di inerzia per qualche periodo. E il problema educativo, il dramma dell’educatore è tutto sulla sua esperienza umana, non è sulla problematica che ha davanti. Possiamo dire che proprio perché si fa l’esperienza di essere rifatti, perdonati, ricostituiti, dentro un avvenimento l’educazione incomincia quando si può indicare, descrivere e raccontare un avvenimento. L’educazione non è possibile perché si ha un grande fascino per alcuni valori, oppure una forte rettitudine morale (cose tutte da valorizzare) oppure perché si ha un forte senso di responsabilità verso le nuove generazioni e si sente il desiderio di far qualcosa perché vengano su il meno delinquenti possibili; no, l’educazione comincia quando un avvenimento di cui faccio esperienza è talmente esperienza che lo posso indicare, descrivere, raccontare. Quindi al di fuori di un’esperienza di un avvenimento, c’è la possibilità di contenere un disagio, ma non c’è la possibilità di educare, cioè di accompagnare la persona, chiunque essa sia e da qualunque condizione parta, verso il compimento del suo destino buono – anche quando, dire a un ragazzo: “tu hai un destino buono” sembra proprio come arrampicarsi sugli specchi. Al di fuori di un’esperienza di avvenimento non c’è la possibilità di educare, ma c’è solo la possibilità di dispotismo e sentimento che prendono il posto della paternità. Tutti noi, sulla nostra pelle, ma anche vedendo il disastro di tantissime famiglie o il disastro umano della stragrande maggioranza degli insegnanti delle scuole, ce ne accorgiamo: o c’è dispotismo, quindi il rifugio nelle regole (quando vengono degli educatori dei corsi di laurea in scienza dell’educazione a fare il tirocinio da noi, la prima cosa che chiedono sono le regole. “Avete regole? Avete regole chiare?” Perché se non ci sono le regole chiare non si può fare, e la regola è la cosa a cui ci si attacca), oppure il sentimentalismo, oggi la riduzione più evidente. Invece nella nostra esperienza, ognuno di noi, se ha la coscienza di quello che gli è capitato, può dire una cosa che è terribile, ma che è la cosa più grande che possiamo portare nel mondo: che si è padri solo se si è figli. E siccome non abbiamo più una generazione di figli, non abbiamo più una generazione di padri: si è padri se si è figli, e si è figli se c’è una paternità che ci genera continuamente, ora. Per essere figlio devo avere un padre ora, devo fare l’esperienza di una paternità che mi rigenera, ora; che mi perdona e che mi ricostituisce, ora. L’avvenimento per noi è una paternità, è l’avvenimento del Mistero che è una paternità e che è giunto fino a noi attraverso una paternità ben precisa. Se non si fa continuamente questa esperienza di paternità, e quindi non si è figli, non si è neanche padri, perché non si fa l’esperienza di essere rifatti, perdonati e ricostituiti ora. Se c’è una cosa che a me dà pace nell’esperienza che sto facendo in casa Edimar è proprio questo: che ogni giorno, quell’esperienza, dentro quelle mura, dentro quella casa, siamo noi accolti, siamo noi rifatti, siamo noi perdonati, siamo noi ricostituiti. Altrimenti l’esperienza dell’accoglienza è una presunzione e prima o dopo uno non resiste più. Quindi non si educa perché si è padri, ma perché si è figli di una paternità: e in questo non c’è nulla di meccanico, cioè l’avvenimento non è qualcosa che possiamo costruire noi; o capita o non capita; e se non capita a noi e capita a un nostro vicino, l’avvenimento per noi è guardare quello vicino che lo vive, e chiedere che accada anche a noi e partecipando di quello che accade a lui, comincia ad accadere anche a noi. Da questo punto di vista per noi, l’aver deciso di non essere solo una famiglia che fa la casa, ma due famiglie, è proprio un aiuto: non dico che sia un modello, dico che per noi è così. L’avvenimento ti riconsegna ogni giorno di più, coscientemente, al Mistero buono che fa le cose, per cui la nostra vita va come riconsegnata, perché tutto è destinato al bene: tutto è destinato al bene, anche se passa dentro il male del mondo. Questa carne destinata al bene, sia la mia, fosse quella di mio figlio o fosse, con maggior probabilità, quella dei ragazzi che ci vengono affidati, questa carne martoriata è destinata al bene, anche se ciò passa dentro il male del mondo e rimane momentaneamente intrappolato dalla perversione di quella che Cesana chiamava la generazione perversa e degenere Spero di comunicare la drammaticità di questa posizione, è la cosa più grande e più entusiasmante che ci sia capitata. Se l’avvenimento riconsegna ogni giorno di più te, allora vivi l’educazione dei tuoi figli e di tutti coloro nei confronti dei quali ti viene dato questo compito, come un riconsegnarli. Io sto proprio percependo questo, che li stiamo riconsegnando al Mistero. Dio ce li fa incontrare perché li riconsegniamo a Lui, ma anche i nostri, che non sono nostri - e si capisce che non lo sono vivendo questa esperienza: che noi stiamo riconsegnando la vita a un Altro, e che quindi anche la vita di coloro che ci sono affidati per natura o per grazia (perché avere un figlio in accoglienza è una grazia, avere un figlio naturale è una natura) vanno riconsegnati al Mistero che li fa, che li possiede, che possiede il loro destino compiuto. È impossibile, quando il ragazzo, soprattutto adolescente la fa grossa e tu in quel momento, per una educazione alla memoria – perché questo non avviene così spontaneamente, è esito di una educazione alla memoria, -: se hai la grazia che in quel momento dove ti appare tutta questa degenerazione, questa perversione, hai minimamente la coscienza che in lui alberga un destino buono, tutto coperto da migliaia di detriti, è impossibile che un filo di umanità e di tenerezza non moduli l’azione anche irosa che ti viene nei suoi confronti. Per cui la vita, per chi educa, è un lento ma inesorabile riconsegnare l’umanità; e quando tutta la libertà tua e del figlio collabora a questo, è uno spettacolo di inizio di umanità compiuta; quando la libertà non collabora, frena o contesta, la riconsegna passa attraverso l’offerta e il sacrificio di sé. Alla fine del libro “Il Rischio educativo” (Sei, Torino, 1995) ci sono dei dialoghi bellissimi che l’autore, don Luigi Giussani ha con alcuni genitori ed educatori e dice: “C’è una tale unità tra gli uomini, una compagnia così unitaria, che ciò che accade all’altro è una parola che Dio dice a me, fino al punto che l’errore di un altro, (pensate a quante ne combinano i nostri figli naturali o avuti per grazia) può essere permesso da Dio come richiamo a una conversione mia: per questo mai nessuno deve giudicare. È attraverso quello che io sono davanti a Te, o Dio, che posso aiutare questo mio fratello o mio figlio che mi addolora, attraverso quello che io sono. Questo pone la capacità di rispetto di quella cosa misteriosa che è la libertà, che comunque è capacità di affermare, di confrontarsi con l’Essere, cioè con il senso del destino”. Questa è la grande premessa, l’orizzonte su cui, secondo me, dobbiamo imbastire il nostro povero tentativo.
1. C’è educazione come avvenimento e quindi come esperienza di un presente, se c’è tradizione. E la prima mossa che viene chiesta alla libertà di fronte a questa tradizione è la lealtà. La realtà non passa attraverso la capacità di coerenza o di tenuta del ragazzo: è un istintivo sì al bene che siccome si corrompe va sempre recuperato. Ma la lealtà è qualcosa che è proprio istintiva, come diceva Cesana che è proprio istintivo e naturale aiutare e se non lo facciamo è perché la nostra società perversa l’ha fatto diventare una cosa eccezionale. Nel rapporto con noi, all’età in cui i nostri figli cominciano a diventare critici, o con questi ragazzi di 14 anni che ci arrivano, a volte senza desiderarlo, non si può chiedere né la convinzione, né la tenuta di regole (perché allora dovremmo andarcene anche noi). L’assenza di lealtà frena l’avventura educativa, ma non la interrompe: se manca la lealtà con la tradizione, l’avventura educativa viene frenata, ma non interrotta. Ciò che interrompe l’avventura educativa è l’assenza della tradizione: se manca l’esperienza della tradizione l’avventura educativa non è possibile. Cos’è la tradizione? Dice don Giussani a pagina 169 del libro citato: “La tradizione non è un sentimento che vagola per l’aria, non è un pensiero che fluttua da anima a anima, ma è una compagnia vivente. Quindi che la famiglia, primo nucleo della tradizione, ma non esaustiva della tradizione, sia dentro una compagnia vivente, questo è quello che fa iniziare una avventura educativa”. L’assenza di lealtà frena, ma questo la rende possibile: che la famiglia sia dentro una compagnia vivente, sia essa stessa compagnia vivente, ma sia dentro, appartenga a una compagnia vivente: perché più il figlio diventa grande, più è questa compagnia che sarà decisiva per lui, e sarà decisiva non se è qualcosa del nostro passato che teniamo viva per lui, ma se è vivente per me. Se è viva per me, sarà decisiva anche per lui. Quindi la prima cura educativa non è educare, ma appartenere: è che la mia famiglia sia dentro un tessuto di comunione e di compagnia vivente, che appare come tradizione. Questa è una cosa grandiosa: perché la tradizione non è né un insieme di valori, né una cosa che siccome è andata bene per noi, deve andar bene anche per loro. E devono rifare tutti i passaggi che abbiamo fatto noi, e se saltano un passaggio crisi isterica della moglie o del marito, problemi…. Perché è qualcosa del passato, mentre, se è qualcosa del presente non è come ieri, è quello che è oggi; e io sono tutto teso che i nostri figli vivano dentro questa cosa e imparino ad essere leali, non convinti, non moralmente a posto, trasgressivi, ma leali: il resto viene. Se manca questo, manca la certezza del punto di partenza. Non basta una famiglia per educare, e non basta una famiglia neanche per accogliere: ci vuole una famiglia che introduca il ragazzo in una compagnia vivente di cui la famiglia è parte, dove vivo un’esperienza così umanamente potente che prende dentro tutto, anche i genitori di questi ragazzi, a suo modo. Io questo l’ho capito quando io e mia moglie, l’altra settimana siamo andati a prendere uno dei nostri ragazzi e siamo andati a mangiare a casa sua: a conoscere la madre, il nuovo lui… ed era come se loro entrassero dentro, così come possono, alla nostra storia: allora l’esperienza di tradizione in cui mettiamo i nostri ragazzi ha dentro anche il loro passato, appena si può. Non è che sono catapultati da un’altra parte. Perché il nostro non è un insieme di valori positivi opposto ai valori negativi che viveva lui: è un’esperienza talmente umana che prende dentro anche il padre ladro o la madre prostituta; è comprensiva anche dell’accoglienza di loro ed è questa cosa che non capiscono gli assistenti sociali quando diciamo: “accogliete un affido fatto da una famiglia che si prende la responsabilità riconoscendola tecnicamente la chiamiamo rete, ma è questa realtà appena descritta”. Ed è una della battaglie più grosse che dobbiamo fare: perché l’affido a una famiglia è la possibilità che attraverso quella famiglia il ragazzo entri in una compagnia che lo porta al suo destino, da cui la famiglia stessa sta imparando. L’esperienza dell’affido non va separata dall’ambito più grande in cui il minore vivrà, compresa l’esperienza di aiuto a tornare nella sua famiglia, a costruire elementi positivi, ecc. È una delle cose grandi che noi stiamo sperimentando con molte famiglie che hanno i ragazzi in affido: che se fossero da sole, li dovrebbero abbandonare perché non ce la fanno; mentre se vivono loro l’appartenenza a una compagnia più grande che prende aspetti che la famiglia non può prendere (ma questo non è il sostegno alla famiglia affidataria: è che la famiglia affidataria è dentro il popolo, la Chiesa) allora reggono. Quindi è geniale la posizione di Giussani che dice che la tradizione è la compagnia vivente, anche per il modo con cui noi dobbiamo immaginare i cosiddetti servizi.
2. Dentro la compagnia vivente, l’esperienza dell’autorità. Inevitabilmente c’è un punto in cui il ragazzo sente generare in lui, un barlume di novità, di stupore e di rispetto: lì nasce l’esperienza dell’autorità, ma l’esperienza dell’autorità è all’interno della tradizione, cioè della compagnia vivente. L’autorità è chi guida a sperimentare ciò che la tradizione genera. È una persona, dice don Giussani, che genera energia e libertà. Se una famiglia affronta l’avventura educativa, vive in una compagnia vivente, la tradizione, ed è tutta tesa in questa compagnia vivente a che i ragazzi incontrino l’autorità, cioè quel punto dell’esperienza in cui l’esperienza diventa convincente e affascinante. È l’esperienza, non è l’autorità, se no è un personalismo, ma è una emergenza inevitabile. Infatti, anche con i nostri ragazzi, noi impostiamo la nostra casa in modo tale che più adulti incontrano, meglio è: perché più alta è la probabilità che incontrino quello che non possiamo decidere noi a tavolino chi deve essere: e, a un certo punto tuo figlio dice: “Ah, forte quello lì”. Il momento in cui scatta la scintilla non possiamo deciderlo noi! Noi possiamo desiderarlo! Quindi la famiglia, le nostre case di accoglienza devono essere tese a che incontrino! Certo, con un ordine guidato, ma che incontrino!. Perché se non è Mario, è Riccardo, se non è Riccardo, è Giovanni. Certo questo vuol dire che siamo una cosa sola. Dico sempre anche ai miei educatori: “Voi dovete avere gli occhi sgranati a vedere quando scatta l’avvenimento della preferenza: quando questo accade, tutti dobbiamo aiutare e servire quella persona lì. Quando nostro figlio si stacca per seguire l’autorità, cominciamo a diventare padri, perché è più grande la riconsegna di lui al Mistero che fa le cose: attraverso un’alterità.
3. Qual è il compito di questa compagnia che è la tradizione vivente? Introdurre alla realtà totale. Con me, per entrare dentro. Non con me, punto. Con me per entrare dentro la realtà; ed entrare dentro la realtà è drammatico per tutti e di più ancora per i ragazzi che provengono da un fallimento nel loro incontro con la realtà: con la scuola, con il lavoro, con gli amici, con i genitori…. e quindi si vogliono creare un mondo artificioso e ci vogliono alleati del loro mondo artificioso e dicono di volerci bene se li teniamo in un mondo artificioso. Il nostro compito, invece, attraverso i due punti che ho detto: tradizione come compagnia vivente e l’autorità come emergenza dentro la tradizione è per un compito che è quello di introdurli dentro la realtà; più la libertà del ragazzo è giocata in un suo incontro con la realtà, più verifica; e più verifica più è convinto. Ma questo avviene in un rischio continuo: non è scontato, non è un processo lineare. Siccome è due mesi che tu sei da me, è ora che tu vada a scuola tutti i giorni; se no non è vero che… bla bla bla…: non è lineare: i conti non tornano mai con il Mistero. A Giobbe i conti non sono tornati nella lotta con il Mistero di notte: gli è rimasto solo il fianco paralizzato: quindi è un rischio continuo. L’esito della verifica non è che quello lì viene su come tu hai pensato che venisse, se accettasse ciò che tu gli hai proposto di verificare. Non è a immagine e somiglianza nostra. L’esito della verifica è sempre una diversità. Io ti aiuto a rientrare nel mondo della scuola o in quello del lavoro, ma l’esito di questo lavoro che fai con me non è come l’ho pensato io: perché la maturità è sempre una diversità, una alterità cioè un fatto irripetibile di una creatura di Dio che si apre alla realtà in un modo che noi non avevamo immaginato. E questa diversità va perdonata sempre, non solo quando c’è il male, perché il perdono non scatta davanti al male, il perdono scatta davanti alla diversità, anche se ha la forma del bene. Il perdono è il riconoscimento che tutto è fatto da un Altro, non è la valvola di sfogo, quando noi non ce la facciamo più a sostenere il rapporto. Dico questo perché un ragazzo non fa il male perché non verifica, ma perché il male c’è. Vogliamo chiamare le cose col loro nome? Quando c’è una situazione di male, tutti a guardare le cause: e nessuno che dice, neanche i preti che vanno in tv: c’è il male. Poi ci può essere la causa: quella lì ha ammazzato il figlio perché da giovane…: ma il male c’è. Se un ragazzo fa il male, non vuol dire che non sta verificando! Se facciamo così, siamo disumani, e in questo suo cammino faticoso di aderire, c’è il male che continua ad esserci. Non è perché non è leale, ma perché non ce la fa ancora. E se non è leale va ripreso lì, non nel suo errore. Se non è leale, si toglie la possibilità, nel tempo, di verificare la bellezza e la verità di quello che gli proponiamo. È diverso correggere uno perché sbaglia, e correggerlo perché non è leale. Anche qui a pag. 54 de Il Rischio Educativo c’è una pagina bellissima a proposito dell’errore nell’esperienza umana che è di una genialità di un altro mondo. Dice: “L’esigenza dell’unità, anima della vita cosciente della persona, deve lottare contro forze di divisione anch’esse presenti nell’uomo”. Chissà perché questi ragazzi, solo perché li abbiamo accolti, e solo perché hanno pianto quando li abbiamo accolti, non dovrebbero averle più, o, se le hanno, diciamo che allora abbiamo fallito, oppure che loro non ci stanno. Diciamo innanzitutto che c’è il male e che il male continua a imperversare come un leone ruggente si aggira cercando chi divorare e aiutiamolo a ritrovare la posizione giusta: quella della lealtà. E questo è un rischio. È più facile spiegarlo con un esempio. Stefano, tre anni con noi, ha compiuto 18 anni un mese fa: cena di compleanno, festa e poi discorso. Dice: “quante ne ho combinate in questi anni, ma voi c’eravate sempre”. Punto. Questo, che ne ha combinate talmente tante da dire che non stava seguendo niente, stava seguendo. Come Pietro: stava seguendo Gesù, anche se lo ha tradito.La lealtà gioca ad un livello dell’essere che sente l’attrazione al vero anche se la sua povera carne non riesce ad andargli dietro. Ma noi dobbiamo guardare questo, non quanto la carne mi viene dietro. Ma siccome anche noi siano uomini, possiamo dire a un certo punto, come io ho detto ad alcuni ragazzi con dolore: “Con te non posso fare nulla” ma non “Con te non c’è più nulla da fare”. Questo sì, perché siamo uomini. Ma l’esperienza è quella di questa povera carne che non riesce, laddove invece l’anelito, il senso, l’intuizione del bello, del vero, riesce. E lui dice: “Ma io perché sono qui? Perché voi c’eravate sempre. E ne ho combinate tante. Non: “ne ho combinate tante, ma non quell’una in più per cui voi non ci sareste stati”.
4. A pag. 164 de Il Rischio educativo, don Giussani scrive:”La vivacità della fede non può essere data da qualcosa che si chiama dovere, non può mai partire come dovere. Dio stesso nella natura propone all’uomo i doveri più radicali secondo il volto dell’attrattiva. Se poi uno non si rende conto che questa attrattiva è in funzione di una costruzione totale, se non si accorge che è per un compito, allora si perde anche l’attrattiva: oppure essa svicola nell’istintività e poi si perde inevitabilmente”. Questo è interessante per la genialità educativa. All’inizio o è un’attrattiva o non è. E l’attrattiva non è un’opera artificiosa nostra, ma è la semplicità del nostro obbedire all’avvenimento. Torniamo alle parole iniziali. Siamo attraenti, quando, come bambini, obbediamo all’avvenimento. Io mi rendo conto che oggi i miei figli subiscono un’attrattiva nei miei confronti, perché hanno degli atteggiamenti di attenzione che prima non avevano, perché mi vedono un po’ più semplice nell’obbedire a una cosa che è più grande di me e che loro credevano che avessi scelto io, poi si rendono conto che è più grande di me. Nasce un’attrattiva. Perché l’attrattiva originale poi decade in estraneità, e quindi è attrattiva proprio perché non è opera nostra, perché, se è opera nostra, il momento dopo è già estraneità. E il vertice dell’attrattiva, nell’esperienza che faccio io, si sperimenta nell’essere amati esattamente come si è, e nel poter amare Cristo esattamente come si è.
Il sostegno del lavoro educativo è la speranza, ma non è per sopportare un incompiuto: noi la facciamo sempre giocare quando non ce la facciamo più a resistere davanti all’incompiuto: allora diciamo “Eh, va beh, abbiamo speranza”. La speranza è l’unica esperienza umana possibile, entusiasmante, attrattiva, appunto, per chi vive il riconoscimento del Mistero dentro la fragilità della propria carne. Perché noi viviamo il tutto, il Mistero, viviamo Dio carità, dentro la povertà della nostra carne; in essa ospitiamo il tutto: la perfezione, il vero, il bello, il buono, e quindi l’incontro tra il Mistero e la nostra povertà, genera la speranza: la speranza che la verità presente brillerà sempre di più anche nella nostra carne, perché in una donna, Maria, è cominciato così.
Testo non rivisto dall’autore
Pubblicato su: “Lettera Periodica” del periodico di Famiglie per l’accoglienza marzo 2003.