“Bip-Bip… Bip-bip…”
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E’ il cellulare. Un sms, anzi due, credo. Sto preparando le valigie per le vacanze e un po’ mi infastidisce, il “bip-bip” che mi distrae. Potevo spegnerlo, penso. Mio marito è al lavoro, i ragazzi sono in camera loro, la scuola è finita, chi vuoi che sia… Ma è più forte di me (le donne, si sa, sono curiosissime) e così mollo i costumi da bagno e vado a vedere chi mi ha scritto.
Non è “un sms, anzi due”. E’… un poema. Il mio cellulare è testimone: mai ricevuto un testo così lungo in una volta sola!
Lo trascrivo, letterale, perché credo non mi capiterà più nella vita.
“Sto andando a Venezia. Sono in treno. Alle 11 ho un colloquio di orientamento. Ho deciso di iscrivermi all’Università. Sperando che i test vadano bene, a fine settembre comincio. Sento che sto trovando la mia strada. Sento che ce la posso fare. Sento che questa è l’occasione per dimostrare a tutti quelli che hanno creduto in me, che valgo quanto loro stessi si aspettavano e si aspettano da L. Ho davanti a me cinque anni di sacrifici, di rinunce e via dicendo, lo so, ma dopo questo avrò ‘qualcosa in mano’. Un anno a lavorare facendo la vita del ‘veneto medio’, della serie ‘lavore come un muss e sabo porte fora la femena’ (‘lavoro come un somaro e sabato porto fuori la mia ragazza’ nda) non è quello che ci vuole per me. Ci provo. Ci provo con la triennale a Treviso e la specialistica a Venezia. Lavorerò fianco a fianco con mio padre in studio e dovrò trovare un lavoro per ‘svoltare’ qualche euro. Volevo condividere questa cosa con una persona che è stata non solo maestra di vita, ma un essere speciale con cui confrontarsi in ogni campo. Le devo veramente tanto, prof.! A lei, che col polso fermo ha saputo stemperare il mio lato più burrascoso, che con una carezza è entrata nel mio cuore capendo che avevo bisogno di aiuto, che con uno sguardo d’intesa mi comprendeva al volo e capiva che la capivo; che con la forza di donna che ho trovato poche volte, va avanti per la sua strada superando gli ostacoli da puma, anche se poverina fatica ad arrivare al metro e sessanta (faccina sorridente). Ci siamo parlati moltissime volte, ci siamo sentiti moltissime volte. Rimane solo da dirle…GRAZIE!”.
Ho iniziato a leggere e mi sono dovuta sedere, tanto era bello, e inaspettato, e vero, ciò che mi scorreva davanti agli occhi. Mi son dovuta sedere perché, mentre leggevo L. (esame di maturità concluso brillantemente giusto un anno fa), mi tornavano in mente le nostre discussioni accalorate in classe, il suo percorso scolastico zigzagante, i suoi “scritti-che-può-leggere-solo-lei-prof.!”, le volte in cui lo trovavo in un angolo, rabbuiato e solo, con il volto rigato da lacrime silenziose e pudiche.
O le sue “giornate no”, che si capivano da come varcava la soglia dell’aula. O il taglio di capelli ogni volta diverso (“ma tanto poi ricrescono, prof.! Non scuota la testa così…”). E i tatuaggi. E i tarli che gli rodevano dentro. E le tante notti passate in bianco e raccontate dalle occhiaie, profonde, la mattina seguente. E le ragnatele che gli ingarbugliavano i pensieri. E la sua ostinata ricerca del “varco”, che gli ha fatto amare così visceralmente Montale.
O quando d’un tratto, nel bel mezzo di una spiegazione, mi chiedeva di uscire perché proprio, di stare in classe, non ce la faceva più. Tornava, poi, testa china e ferite nel cuore, a cercare un sorriso.
E la sua delicatezza con il suo compagno F., sindrome di Asperger. L’avrebbe protetto a costo della vita. E le battute in classe, a stemperare le tensioni. E i suoi disegni, le sue canzoni, la musica che componeva. E la passione generosa nei lavori di gruppo. E l’allegria, quella sera della pizza tutti insieme…
Leggo e mi chiedo come sia possibile che nascano legami “così”, tra uno studente e un’insegnante. Così “veri”, così “fedeli”, così profondi, così inossidabili.
E mi ritrovo commossa, al pensiero che mentre sta prendendo una decisione tanto importante, e decisiva per la sua vita, mentre il treno lo sta portando a Venezia, gli venga in mente di pensare a me, proprio a me.
Non glielo chiedo, nell’sms che gli invio immediatamente, come risposta commossa e grata al suo, che salverò nella memoria (del telefono e… del cuore).
Non glielo chiedo perché ha ragione: con uno sguardo d’intesa ci si comprendeva e ci si capiva al volo. Ora… non serve nemmeno più lo sguardo.
«In luoghi abbandonati / Noi costruiremo con mattoni nuovi / Vi sono mani e macchine / E argilla per nuovi mattoni / E calce per nuova calcina / Dove i mattoni sono caduti / Costruiremo con pietra nuova / Dove le travi sono marcite / Costruiremo con nuovo legname / Dove parole non sono pronunciate / Costruiremo con nuovo linguaggio / C’è un lavoro comune / Una Chiesa per tutti / E un impiego per ciascuno / Ognuno al suo lavoro» [T. S. Eliot, Cori da «La Rocca»]
Quando in classe avevo letto questi versi, avevamo discusso, è vero: L. e tanti suoi compagni di classe si dicevano “non credenti”. Però ricordo ciò che, alla fine, mi avevano detto: li aveva colpiti sentire (e incontrare) qualcuno che fosse testimone di speranza e di una felicità possibile e concretissima. Qualcuno che aveva trovato il suo posto nel mondo ed era certo che, prima o poi, prestando attenzione ai “segni”, ciascuno sarebbe riuscito a capire quale fosse il proprio.
L., oggi, mi ha scritto “sento che sto trovando la mia strada”. L’ha scritto alla sua prof. di italiano, che in un momento della vita in cui si sentiva perso, e vagava come in un labirinto, ha semplicemente cercato di guardarlo come si sente, da 47 anni (e cioè da sempre), guardata lei.
Da uno Sguardo che abbraccia tutto ciò che siamo (anche le tue lacrime e la tua passione, L.; i tuoi “giorni sì” e i tuoi “giorni no”; la tua dolcezza e le burrasche che ti sconquassano il cuore; e il tuo cammino in salita; e il bene che vuoi alla tua nuova ‘morosa’…) e ti dice, sorridente, che vali infinitamente più di quel che credi. Perché sei unico ed irripetibile.
Grazie, L.! Grazie dalla tua prof. che, ad onor del vero, forse fatica persino ad arrivare al metro e cinquantacinque (faccina sorridente) e però… è felice proprio come l’ultima volta che vi siete visti. Come sempre.