Condividi:

1 - L’handicap una risorsa, non un problema

Autore:
Mocchetti, Giovanni
Fonte:
CulturaCattolica.it
"Scendemmo lungo il sentiero che portava al pozzo..."

“Scendemmo lungo il sentiero...”
Sono le parole conclusive dell’autobiografia: “Il Mondo in cui Vivo” di Helen Keller, adolescente sorda, cieca e muta che viene introdotta alla realtà dall’istitutrice Anne Sullivan.
Esse descrivono il momento in cui la ragazza coglie finalmente il nesso tra sé e il reale, tra le parole e il loro significato. La conquista accade nel momento più imprevedibile e dopo lotte furibonde tra l’adolescente e la maestra. Accade tuttavia non a caso, cioè dopo che Anne ha progressivamente distrutto tredici anni di educazione familiare pietistica, dopo aver sedato una libertà concepita e vissuta come istintività selvaggia, infine, dopo aver condiviso un rapporto quotidiano con Helen per una settimana e aver posto la propria presenza di maestra, capace di severità e di tenerezza, nei confronti di una discepola incosciente e riottosa “… senza amore, la disciplina è un inferno….”.
Così Anne accede al reale perché Helen ha rischiato il suo io verso questo tu fragile, indifeso, sofferente. L’handicap non può essere uno strumento di ricatto affettivo nei confronti del genitore o nei confronti di chi guida dentro il reale. Qualcuno deve fare da “battistrada” nel percorso della conoscenza di sé e del mondo. La fragilità è solo uno degli aspetti della totalità dell’io del portatore di handicap o del ragazzo a disagio psichico o intellettivo. L’educatore non può né fermarsi a questo aspetto della sua persona, né può ignorare i limiti oggettivi. Perché? Nel primo caso c’è il rischio che il limite del ragazzo diventi una tale obiezione ad incontrarlo e fargli incontrare la realtà da impedire qualunque tentativo di fargli trovare un posto nella quotidianità della vita, e ciò genera nell’educatore impotenza, frustrazione, sentimento d’inutilità… fino alla rassegnazione circa la possibilità di “far venir fuori” a se stesso questo alunno così fragile e disarmato. Nel secondo caso, l’educatore, trattando il portatore di handicap o il ragazzo a disagio come se non fosse tale, compie un lavoro approssimativo, superficiale, privo di realismo e non ama fino in fondo il destino di questo allievo.

L’isola del tesoro e gli ostacoli
Un’immagine per comprenderci: abbiamo la certezza che nell’isola c’é un tesoro, ci hanno dato una mappa, c’è una foresta irta di pericoli da attraversare e i pirati possono essere in agguato, cioè abbiamo di fronte forme diverse di gravità o di disagio: dall’alunno autistico al down, dallo psicotico a chi manifesta dei ritardi scolastici. Sappiamo che il ragazzo non può essere definito dal suo limite, come la foresta e i pirati non sono ostacoli nella ricerca appassionata del tesoro.
Quindi: ci mettiamo in marcia, superiamo certe difficoltà, troviamo il posto, scaviamo e non riusciamo a trovare il tesoro, perché scopriamo che una parte dell’itinerario della mappa era errato, cioè accade che a certo punto ci sembra di aver raggiunto l’io misterioso di questo ragazzo ed invece abbiamo sbagliato strada, strategie di approccio, modalità di sguardo e allora non è che ricominciamo da capo. Semplicemente dobbiamo aver il coraggio, la tenacia e la pazienza di prendere un altro sentiero della mappa, di avvicinare il ragazzo da un altro punto di vista, tentare un’altra maniera di rapportarci con lui.
Arriveremo al tesoro? Sì, no, non lo sappiamo, ma: chi ci toglie la passione con cui ci siamo avventurati nell’isola? Chi ci può sradicare dalla bellezza della compagnia vissuta con altri avventurieri per scovare il tesoro? Chi ci strapperà il ricordo di un’impresa vissuta per un ideale vero divenuto esperienza? Nessuno potrà cancellare dal nostro cuore tutti i volti di questi ragazzi indifesi e dei loro genitori incontrati in questi decenni.
Gli educatori non sono dei ragionieri che fanno i calcoli del dare-avere, perché hanno a che fare, in questi casi, con il mistero del dolore. Gli educatori hanno il compito di guidare e di far compagnia in modo tale che anche questi ragazzi possano trovare se stessi e introdursi al reale con dignità e serenità.
Con quale livello di conoscenze? Quelle che come educatori siamo riusciti a consegnare loro, strappando a poco a poco le erbacce della foresta che impedivano di raggiungere il vero tesoro, cioè la sacralità del cuore e della ragione di questo ragazzo, fatto ad immagine e somiglianza di un Dio che non ha esitato a portare sul proprio corpo quel limite che sembra schiacciare il ragazzo. Non esiste dolore che non sia redento, non esiste un male che non possa essere riscattato dalla presenza di una positività misteriosa, ma incontrabile dentro il reale.

“Neverland: un sogno per la vita”
Nel film “Neverland: un sogno per una vita” di M. Forster, il dolore per la morte del padre e lo spegnersi per malattia della madre genera nel giovane protagonista una disperazione rabbiosa e accecante. Che cosa lo salva? La fantasia del genio che crea la figura di Peter Pan, la condivisione di un rapporto che giunge fino all’assunzione di un’esplicita paternità da parte dell’autore di questa grande opera nei confronti del ragazzo rimasto orfano. Insomma gli educatori spesso non vedono neanche l’esito degli sforzi compiuti per raggiungere il tesoro nascosto, altri magari raccoglieranno i dobloni nascosti nel cofano, ma che cosa è importante? Certo uno vorrebbe mettersi in tasca qualcosa dopo tutti i pericoli che ha dovuto affrontare, ma alla fine quello che conta è che se non ci arrivi tu “a far scendere (il portatore di handicap) lungo il sentiero che portava al pozzo...”, qualcun altro raccolga l’umano che tu hai coltivato e gli permetta di accedere a se stesso e al reale. Ciò che importa insomma è che anche lui sia “educato”.

Articoli Correlati
Vai a "Attività didattiche in classe"