2 - L’handicap una risorsa... Il dramma del limite proprio ed altrui
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Un mestiere affascinante e drammatico
Quello dell’educatore (docente o genitore che sia) è un mestiere molto affascinante e nello stesso tempo drammatico: affascinante perché esso contribuisce a generare ogni giorno l’io del discepolo o del figlio, ne risveglia la ratio (l’intelligenza), ne guida i sentimenti e forgia il carattere (affectio), rende operose tutte le energie del corpo (corpus) nell’affrontare la fatica di rapportarsi con le circostanze quotidiane, insomma è un lavoro affascinante perché, se affrontato umilmente e tenacemente, fa diventare grande una persona.
Ma è anche un mestiere drammatico, perché si scontra con il mistero della libertà di un discepolo che va incontrato, conquistato, ridestato, corretto, il cui “tu” va posto in rapporto con il proprio “io”, senza avere la certezza di una corrispondenza da parte sua.
Ogni giorno il tu del discepolo fa irruzione nella nostra vita e c’interpella, ci provoca e chiede non solo quello che sappiamo, ma anche quello che siamo, così come siamo. La sua presenza é una sfida, il suo mutismo, la sua istintività, la sua instabilità emotiva, i suoi lampi di genio così come la sua trasgressività sono una domanda continua. Il nostro mestiere non può mai dare niente per scontato e assume connotati più drammatici, se l’interlocutore è un alunno che presenta un handicap o forti carenze scolastiche. Perché? Quello che ci spaventa, quello che fa entrare in crisi non è tanto o solo l’entità del limite o il tipo di handicap, quello che ci fa scandalo (pietra d’inciampo) è il limite in quanto tale, perché esso ci ricorda il nostro finito, il nostro essere imperfetti.
L’alunno con poche risorse, quello che “non ci arriva”, l’autistico o il down ci ricordano quello che siamo: creature che sono opera di un Altro. Siamo così presuntuosi, diamo così per scontato che talenti e capacità ci sono donati, che il limite ci imbarazza, ci spazientisce e talvolta l’irruzione improvvisa della debolezza altrui nella nostra vita ci irrita e quindi cosa facciamo?
“Le chiavi di casa”
Nel film “Le chiavi di casa” di G. Amelio, un adulto trentacinquenne si ritrova improvvisamente tra le mani il figlio quindicenne emiplegico che ha abbandonato alla nascita, per reazione rabbiosa di fronte alla morte della compagna causata dal parto. Lo ritrova perché ha deciso di conoscerlo e di portarlo in un ospedale di Amburgo, per un intervento riabilitativo. Il giovane incontra in un reparto la madre di una ragazza spastica che gli dice: “è strano vedere qui un uomo.. gli uomini non ci vengono mai in un posto così... questo è il lavoro sporco che tocca alle madri; i papà non ce la fanno... con una scusa o con un’altra si tirano indietro...”. Scappiamo, facciamo i pietistici, ci commuoviamo ma non teniamo a lungo lo sguardo su di loro.
Cosa facciamo ancora? Ci affidiamo allo specialista, cerchiamo di ristabilire un controllo se questo limite ci inquieta troppo, ci sentiamo inadeguati e talvolta costruiamo un bel nido autoprotettivo per nascondere la nostra impotenza. Elaboriamo strategie, demandiamo responsabilità e non ci passa nemmeno per l’anticamera del cervello che quel ragazzino indifeso, debole possa essere un’occasione di grazia, una possibilità che smantella tutte le nostre artificiose presunzioni, non ci viene in mente che quel ragazzino va incontrato. Se con ce la fai tu, accadrà con altri: ma intanto, almeno tenta di offrire la tua umanità a questo fragile tu. Quindi, che fare? Non esiste un manuale d’istruzioni di comportamento del maestro verso il portatore di handicap o nei confronti di chi ha un ritardo scolastico, ci sono tuttavia altri equivoci da sgombrare e atteggiamenti su cui riflettere.