Condividi:

La laicità: risposta a E. Scalfari

Autore:
Amori, Matteo
Fonte:
CulturaCattolica.it
In risposta a Scalfari a proposito della sentenza del Tribunale dell'Aquila sul Crocifisso

La laicità è un modo di pensare che garantisce la libertà di tutte le religioni e di chi non crede in alcuna. Libera Chiesa in libero Stato, parole che risuonarono per la prima volta nel 1861 nel Parlamento italiano appena nato e fu Cavour a pronunciarle. A me sembrano sempre più attuali, con il solo aggiornamento di volgere al plurale la parola "Chiesa". La laicità significa netta separazione e reciproco rispetto tra la sfera politica e la sfera spirituale; tanto più è necessaria questa separatezza, quanto più ci si avvia verso un mondo globale dove religioni e culture sono destinate a convivere sullo stesso territorio apprendendo la pratica della tolleranza e dell'ospitalità.
So bene che la vera fede non si esaurisce con il battesimo ma in una pratica non formale del sentimento religioso. Da questo punto di vista i cattolici praticanti sono valutati a circa sei milioni, i non credenti a circa dieci milioni. Il resto della popolazione è di fatto indifferente ma non sopporta tuttavia che i simboli della religione cattolica – ai quali non presta soverchia attenzione – siano rimossi dai luoghi dove sono esposti.
Questo modo di pensare, determinato più dal costume che da una fede intensa e praticata, è un dato di fatto e non può essere ignorato. Umberto Eco ha chiarito benissimo secondo me questo tema nell'articolo pubblicato il 29 ottobre su
Repubblica. Ne consiglio la lettura perché affronta il nostro tema in modo chiaro ed oggettivo.
Nel caso specifico penso che il crocifisso non debba essere esposto negli uffici pubblici. Penso che i primi a chiedere che il simbolo religioso non debba essere snaturato con usi impropri debbano essere proprio i cattolici. Per loro Gesù è il figlio di Dio, incarnato per recuperare l'alleanza tra Dio e gli uomini e indicare la via della salvezza. Come si può senza essere inconsapevolmente blasfemi far regredire l'immagine di un Dio fatto uomo a un simbolo che esprima anche l'identità di un popolo? Ricordo che uno dei principali comandamenti della legge mosaica, fatta propria dal Vangelo, è quello di "non nominare il nome di Dio invano", cioè non bestemmiarlo e non esporlo alla banalizzazione.
L'errore dunque, prima ancora di un'ordinanza giudiziaria che urta il senso comune tradizionale e rischia di risuscitare antichi steccati, sta nell'aver usato il crocifisso al di fuori dei luoghi destinati al culto e di averlo inevitabilmente coinvolto in diatribe giudiziarie e politiche. Vedere l'immagine del Cristo alle prese con articoli della Costituzione, sentenze e carte bollate è uno spettacolo avvilente sia per chi crede sia per chi non crede. Molto meglio appendere alle aule scolastiche, dei tribunali e di pubblici uffici l'immagine del Presidente della Repubblica e la bandiera nazionale, il Cristo è molto più per tutti, credenti e non credenti.
Eugenio Scalfari, dal Venerdì di Repubblica del 7 novembre

Questa è la risposta di Scalfari ad un lettore che auspicava, dalla sentenza del tribunale dell'Aquila sul crocifisso, il definitivo avvento della ragionevole ed ovvia tolleranza contro ogni forma di imposizione ed abuso. È una risposta per molti aspetti esemplare.
Essa muove dalla interpretazione dominante di uno dei più celebri slogan della nostra storia patria, appunto Libera Chiesa in libero Stato, con il quale - giova ricordare - Cavour proclamò la libertà della Chiesa dopo aver abolito il tribunale ecclesiastico, cancellato qualche decina di ordini religiosi, dopo averne incamerato proprietà e rendite ed averla sottoposta all'esclusivo dovere dell'utilità sociale. Ma su questo sorvolo, non è l'aspetto più interessante dell'intervento di Scalfari. Nessuno, forse, nella scuola di (libero) Stato da lui frequentata glielo ha mai insegnato e, si sa, la scuola di Stato versa in condizioni disastrose…
Ciò che colpisce di più di questo intervento è la seconda parte, che credo si possa riassumere così: un cristiano autentico dovrebbe essere il primo ad opporsi all'esposizione del Crocifisso in pubblico o degradarlo ad "avvilente" oggetto di "sentenze e carte bollate". Perché esporlo ad una tale "banalizzazione", farlo "regredire… a un simbolo che esprima anche l'identità di un popolo?". Il "Cristo è molto di più per tutti, credenti e non credenti". L'idea mi sembra chiara: così si "sporca" il simbolo, il significato puro del Cristo, anche se Scalfari si guarda comunque bene dal dire di che cosa esso dovrebbe essere simbolo.
Questa lezione di purezza mi ha fatto tornare alla mente un episodio remoto della storia europea e cioè la sanguinosa controversia che oppose l'Imperatore di Bisanzio Leone III ai cattolici nella prima metà dell'VIII secolo attorno alla legittimità delle immagini sacre. La cosiddetta "lotta per l'iconoclasmo" (distruzione delle immagini sacre). È lecito per i cristiani rappresentare Dio con immagini? Non è forse un tremendo peccato di blasfemia? Non è forse Dio più alto di qualsiasi opera umana? A Bisanzio si sosteneva appunto che rappresentare Dio fosse un peccato gravissimo. "Tu rifiuti di essere dipinto sulle pareti con mezzi ed artifici materiali", "Cristo non tollera di essere dipinto in forma di superficie, senza voce e privato del respiro, con materie terrene. Ciò è contrario alla Scrittura". Così recitano due brevi testi bizantini dell'epoca. Cioè: Tu, Signore, sei molto di più di ciò che possiamo rappresentare di Te, sei il Puro, l'Assoluto, quindi le rappresentazioni di Te, tutte inadeguate, devono essere rimosse e distrutte, e chi le sostiene perseguitato. Questa polemica, di origine dottrinale, che nascondeva tuttavia antiche tensioni di ordine economico, politico, insanguinò mezza Europa per più di un secolo, con condanne ed azioni violente da entrambe le parti.
L'argomentazione del credente fanatico Leone è la stessa del non credente Scalfari. E già questo è curioso. Ma prima giova ricordare la risposta che papa Gregorio II oppose al "fuoco purificatore" dell'Imperatore bizantino: "Se il Signore non si è incarnato, non si formi la Sua santa immagine secondo la carne. Se non nacque in Betlemme dalla gloriosa Vergine, madre di Dio, s'Egli, che regge l'Universo, non fu portato come un infante dalle braccia della madre, s'Egli che alimenta ogni carne, non degnò cibarsi di latte, non si raffiguri neppure questo. Se non risuscitò i morti, né sciolse le membra ai paralitici, né purificò i lebbrosi, né diede la vista ai ciechi e ai muti la parola, non si rappresentino i Suoi miracoli. Se non subì volontariamente la passione, se non spogliò l'Inferno, se, risorto, non salì al cielo… in tal caso non si adoperino lettere o colori a narrare questi fatti. Ma se tutto ciò è avvenuto… fosse possibile che il cielo e la terra e il mare e gli animali e le piante, ed ogni altra cosa lo narrassero con la voce, per iscritto, con la pittura!". Certo Leone era cristiano e l'argomentazione del papa sostanzialmente faceva notare al potente Imperatore che quella Gloria di Dio di cui il bizantino si ergeva a puro difensore, era maturata, definitivamente e per intero, nella carne umana e si era alimentata del latte di una donna. Senza lo spettacolo di ciò, della Gloria di chi, allora, dovremmo parlare? In sintesi, cioè, papa Gregorio dice: se stiamo ai fatti su cui la nostra comune fede si basa, caro Leone, hai torto.
Cosa opporre, però, a Scalfari, che credente non è?
In primo luogo, forse, fargli notare la curiosa costruzione della sua risposta. Dopo aver posto in cima al suo testo, a mo' di cappello, quell'affermazione di Cavour, sulla quale, a quanto sembra, siamo tutti d'accordo, Scalfari cita una serie di cifre che testimoniano la minorità del culto cattolico praticato nel nostro paese. Deve tuttavia ingoiare, dalla lettura di tali cifre, che la massa, maggioritaria in Italia, degli indifferenti religiosi – più "per costume" che per convinzione – non è per questo disposta a pronunciarsi a favore della rimozione del Crocifisso. E allora Scalfari cosa fa? Sublima, astrae, si innalza al piano dei purissimi principî. Si fa esegeta, cioè interprete dello spirito puro e profondo della Rivelazione ebraico-cristiana. Raffronta Antica Legge ("non nominare il nome di Dio invano") e Nuova Legge ("il figlio di Dio incarnato") e conclude per la rimozione dell'immagine. Certo verrebbe da notare che per gente del calibro di San Pietro e Santo Stefano non fu cosa facile capir bene in che modo Cristo aveva compiuto l'Antica Legge e che il secondo pagò con la vita alcune frasi un po' irruente pronunciate a tal proposito in pubblico a Gerusalemme e riferite al Sinedrio. Ma per l'Esegeta né l'uno né l'altro sono testimoni attendibili, uno era un pescatore, l'altro un ragazzino. Scalfari vuole opporre alla banale carne del Vangelo la purezza dell'Antico Testamento. E allora si legga il Salmo 126: "Se il Signore non costruisce la casa, /invano vi faticano i costruttori. Se il Signore non custodisce la città, /invano veglia il custode".
Ma Scalfari è più di un salmista qualsiasi egli è un ex-direttore di testata nazionale e, se non ce ne siamo accorti, ha appena salvato il cristianesimo dalla blasfemia e dalla banalizzazione. Un servizio non da poco. Soprattutto se si pensa che, per il livore che la sua lettera trasuda per l'ignorante perseveranza dei cristiani d'oggi a volerlo "tenere sott'occhio" il Dio crocifisso, sembra che solo oggi, dopo duemila anni di eresia, grazie a lui, la verità nella sua purezza è stata ripristinata. Ma perché, mi domando, affidare questa immane illuminazione ad una misera rubrica (Scalfari risponde) di un settimanale pur molto diffuso sul piano nazionale? Tutti lo devono sapere che il cristianesimo rettamente inteso è questo. Tra l'altro, e qui mi permetto di integrare un po', il pensiero di Leone-Scalfari, questo risolverebbe di schianto tutti i possibili conflitti religiosi. Perché, come recita l'ultimo versetto della Rivelazione scalfariana, il Dio puro è quello di tutti, credenti e non.
In secondo luogo l'elemento sconcertante di tutta la faccenda è questo: il Profeta Scalfari non crede in Dio.
Un non-credente che difende la purezza del cristianesimo contro i cristiani stessi lo può fare solo per ideologia, cioè per affermare un suo pensiero o un suo progetto. Non credo sia assolutamente rilevante se questo pensiero-progetto sia cattivo o buono ed "illuminato". Il problema è a monte, è di metodo: di fronte alla pretesa oggettiva corroborata da duemila anni di culto cristiano (ed almeno la pretesa dei cristiani così come milioni di immagini sacre nella storia sono fatti), Eugenio da Civitavecchia proclama che tutto ciò non deve essere. Cosa ci attende? "Molto di più"! Cioè? Boh!… alla quarta colonna egli si riposò. Forse bisogna attendere la Seconda Venuta del Profeta, in edicola oggi.
Difendere la purezza di qualcosa in cui non si crede è l'apice della distruzione dell'uomo, è nichilismo. La nostra vita si costruisce su ciò che noi crediamo essere verità, bontà, bellezza. Siamo disposti ad ammettere che la vita rimetta in discussione il volto di queste cose, ma non il fatto che esse trovino spazio, che accadano. Non accadessero almeno una volta, non varrebbe la pena vivere. Ecco il cristiano è uno così. Spesso non è un uomo che ha sperimentato verità, bontà e bellezza più volte degli altri. Anzi forse una sola volta, ma quella volta è bastata a convincersi che il "molto di più" di cui parla Scalfari è accaduto, non è una pura speranza. Segno sintetico di questo fatto è il crocifisso. Segno di speranza reale che i cristiani devono poter offrire pubblicamente al mondo con lo stesso diritto con il quale Scalfari offre la sua rivelazione, tra l'altro a pagamento, sul Venerdì di Repubblica. "Togliamolo dai luoghi pubblici" è come dire che non è problema della società se vi sia qualcosa oltre la nostra vita in una società. Si obietterà che esso continua a vivere nella privata coscienza del credente, in forma più pura e meno "banale" direbbe Scalfari. Grazie a Dio è vero. Ma la storia ha mostrato – è cioè un fatto –, ed ancor'oggi mostra che quanto più si tenta di spogliare la società dalle testimonianze visibili della fede cristiana per ricacciarle nel santuario della coscienza, tanto meno questa coscienza rinuncia a testimoniare nella carne, cioè visibilmente, non credo "banalmente", la propria fede. Qualche nome: Kolbe, Bonhoeffer, Stein, nei Lager. Per tutti il filosofo Florenskij nei Gulag sovietici. Chissà come un amante dell'invisibilità del cristianesimo si troverebbe a razionalizzare e "purificare" il drammatico ma misterioso rilancio che il martirio ha sempre causato alla fede: Sanguis Martirum, semen Christianorum.
Un'ultima osservazione: il cristianesimo ha portato nella storia una divisione oggettiva, implacabile e non mediabile, quella tra chi crede e chi non crede in Gesù Cristo figlio di Dio. Questa divisione è un fatto, anteriore ad ogni giudizio morale sugli uni o sugli altri. Un ragazzo ha un maglione di lana, un altro la giacca a vento, questa constatazione precede ogni considerazione sull'adeguatezza del vestiario alla stagione, sulla qualità della confezione o sul valore estetico dei capi si abbigliamento. L'implacabilità della divisione tra credenti e non, cioè, non è dovuta a chi sa quale peculiarità del cristianesimo in generale ma a quella che esso possiede in virtù delle sua pretesa di essere accaduto, di essere un fatto, il Dio nato a Betlemme, crocifisso sul Golgota e risorto tre giorni dopo. Ora c'è chi crede che questo sia accaduto, anzi che esso sia quell'avvenimento in virtù del quale dopo di esso tutto ciò che accade ha senso in ossequio o in contrapposizione ad esso; e c'è chi a questo avvenimento non crede. I fatti si giudicano incontrandoli non sublimandoli in una saggezza superiore in cui si pretende di esaltarli ed invece li si rendono nulla. Se poi chi vuole insegnare ciò non crede al fatto di cui insegna la retta interpretazione siamo a posto. Insegnare allo zoppo a zoppicare prima di essere inutile, è da fessi.

Vai a "Approfondimenti - IRC"