“Dolce Amor, Cristo bello!” Clemente Rebora e l’incontro con Cristo 6 - "Polverizzato nell'amor di Cristo"
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“Tutto il segreto della santità sta in queste due parole: affidare e confidare”: così Rebora commenta il salmo 26 (quello da cui sono partite le nostre serate) in una Bibbia densamente annotata degli anni del suo sacerdozio.
Questa unione totale con Cristo non può che produrre un frutto:
“La grazia di patir, morire oscuro,
polverizzato nell’amor di Cristo:
far da concime sotto la sua Vigna,
pavimento sul qual si passa, e scorda,
pedaliera premuta onde profonda
sal la voce dell’organo nel tempio –
e risultare infine inutil servo:
questo, Gesù, da me volesti” (Notturno)
Tutto ciò è dunque per un compito: la generazione di una vita nuova con Cristo. Alla positività del reale, già riconosciuta in precedenza, l’uomo contribuisce in virtù della Grazia di Dio.
Rimane un ultimo passaggio, quello che Eugenio Montale ha definito “la parte più inebriante del suo Curriculum vitae”: la malattia, una serie di attacchi, di ictus probabilmente che lo colpì negli ultimi cinque anni e che lo portò progressivamente alla paralisi. La poesia, scomparsa quasi totalmente dalla vita di Rebora per una trentina d’anni risorge, anche su sollecitazione dell’amato fratello Piero (e dei suoi superiori): abbiamo così i Canti dell’infermità e il Curriculum vitae.
Leggiamo il racconto del suo superiore al momento dell’insorgere della malattia: “Lo trovo impossibilitato a muoversi: paresi destra. «Don Clemente mio – gli dico – che mi state combinando?» «Padre – mi risponde tutto sorridente e luminoso – Dominus tetigit me»”. Il Signore mi ha toccato. Ancora una volta Dio non lo lasciava tranquillo.
Nei primi momenti della malattia Rebora può ancora scrivere. Nell’archivio di Stresa c’è un quadernetto con molte sue annotazioni in una scrittura tremolante di chi fatica a usare la penna. Molti i ricordi della sua passata esistenza. Fra questi largo spazio ne occupa uno relativo al suo ministero sacerdotale, che diventa assai significativo in questi anni di sofferenze: l’accompagnamento al momento della morte di una giovane donna milanese, Picciola Della Porta. È il preannuncio del suo dramma, del rapporto drammatico che l’io di Rebora vive con il Tu di Cristo (anche questo è un insegnamento che Rebora ci può dare: l’uomo non si può concepire – mai – da solo, solo il rapporto con un Tu salva e permette la piena comprensione di se stessi – non certo lo scavo nell’interiorità, di cui non c’è traccia in queste ultime poesie).
Leggiamone un passo, con le parole della donna: “Sono superata dalla sofferenza. Sono internamente tutta una piaga. Io sono limitazione. Sento che non ho ancora incominciato niente. Solo Lui è e fa tutto. Come siamo lontani dalla realtà. Solo lui, Tutto. […] (Tra spasimi indicibili mi guardava dal volto Gesù crocifisso, esterrefatto di strazio) Ormai anche nel volto, Picciola si conforma al crocifisso, crescendo nella consumazione la grandezza splendida degli occhi”.
Il volto della donna che vive la sofferenza come unione con Gesù diventa per lui il volto stesso di Cristo crocifisso.