William Shakespeare: l'opera
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Schede di revisione di letteratura italiana ed europea
Ad uno sguardo panoramico, l'opera di Shakespeare sembra scandagliare in tutta la sua profondità l'abisso del «male», ed indica infine come via di risalita il «perdono».
Nato nel 1564, forse il 23 aprile, battezzato il 26 col nome di William, il grande drammaturgo morirà in un altro 23 aprile - quello del 1616 -, festa di san Giorgio patrono dell'Inghilterra.
Il padre John apparteneva a quella borghesia affaristica che sotto il regno di Elisabetta I (1558-1603) aveva enormemente aumentato il proprio peso sociale.
La giovinezza di William fu vivace ed esuberante: lo sorpresero a cacciare di frodo, a diciotto anni dovette affrettatamente sposarsi con Anna Hathaway, da cui ebbe - pochi mesi dopo - la primogenita Susan (cui seguiranno, nel 1585, due gemelli: Hamnet e Judith).
Il contesto del «teatro elisabettiano»
Quando dalla nativa Stratford egli si trasferisce a Londra, è in piena fioritura il «teatro elisabettiano»: opere come Frate Bacon (1583) di Robert Greene, La tragedia spagnola (1586) di Thomas Kyd, Tamerlano il grande (1585) e La tragica storia del dottor Faust (1588) del «satanico» Christofer Marlowe, avevano portato sulle scene truculente storie, piene di passioni sfrenate, assassini, tradimenti e vendette. Il De Bosis, nel secolo scorso ha definito questi autori «un coro di giganti (...) formidabili, violenti, inesauribili nell'orrore, nella tenerezza, nella passione, scomposti e multanimi, signori della vita e delle sue leggi».
Il rinascimento, in Italia come - un secolo dopo - in Inghilterra, si conferma una forma di naturalismo: l'uomo-gigante afferma la propria signoria sulle cose, censurando e obliterando la propria strutturale fragilità.
La cultura classica e cristiana erano state ben più attente all'integrale realtà della natura umana: «Vedo ciò che è meglio e faccio il peggio» (Ovidio); «Non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio» (san Paolo).
La natura orienta l'uomo verso il bene, ma lui - con le sue sole forze - non è esistenzialmente capace di restare su questa strada.
Sul «teatro elisabettiano», illuminante è una riflessione di Luigi Giussani: «Queste opere teatrali colpiscono per l'atteggiamento che denunciano in genere nei confronti della natura umana. La dinamica che sospinge i meccanismi drammatici di queste pièces è tutta improntata ad un coinvolgimento appassionato e fatale con gli impeti della natura, cui diventa quasi impossibile sottrarsi, come ad un fiume in piena inarrestabile. (…). E' caratteristico che spesso nel testo elisabettiano, di fronte alla passione protagonista, si leva una voce - consigliere o amico - che esprime da un lato l'esigenza e l'inevitabilità, già acquisite come mentalità, di assecondare l'istinto, dall'altro lo scontro di quest'ultimo con le regole morali sentite come convenzioni sociali, in contrapposizione dualistica. In queste opere la morale è rappresentata come pedaggio pagato ad una ufficialità, ad un complesso di leggi ecclesiastiche e sociali formalisticamente accettate, come giudizio che si sovrappone alle vicende e passioni umane già scatenate affermate ed accettate, anziché esserne radice innovativa e correttiva. (…) Resta un vago turbamento, un irrisolto sussulto sintomo della censura operata, sussulto che ben definisce un altro autore elisabettiano, John Webster, mettendo in bocca ad un suo personaggio nella tragedia Il diavolo bianco queste parole: "Ho vissuto male, da dissoluto, come certuni che vivono a corte; e a volte quando il mio volto era pieno di sorrisi, ho sentito sgomentarsi la coscienza nel mio petto". Non più dunque un giudizio, chiaro e operante all'origine, sui propri limiti, sull'incapacità riconosciuta di "atti virtuosi", ma un turbamento, uno sgomento, grazie a Dio non del tutto eliminabili».
Oltre il «teatro elisabettiano»
Il genio di Shakespeare, che muove i suoi primi passi in questo contesto, nelle opere della maturità tematizza la complessità della realtà umana - radicalmente segnata dal male - a un livello ben più profondo rispetto agli «elisabettiani».
Nei primi drammi storici l'autore si pone le grandi domande sul potere.
Nel Riccardo III (1592-93) ci viene presentato un re malvagio e violento, che crea il caos in tutto il paese; che calpesta la «coscienza», la «tradizione», l'«onore»; che vuole «farsi da sé».
Nel Riccardo II (1595-96) il monarca è invece buono, ma così preso da astratti interessi filosofico-artistici che appare inetto a governare i concreti problemi. In questi casi cosa è giusto fare? E' opportuno calpestare la legge divina in nome della giustizia umana, ricorrendo al regicidio? La storia lo sconsiglia, perché la violenza chiama altra violenza.
Esaurita, tra il '96 e il '99, la galleria di ritratti dei recenti monarchi inglesi con Re Giovanni, Enrico IV e Enrico V, Shakespeare si rivolge al mondo romano.
Nel Giulio Cesare (1599-1600) la figura centrale è Bruto, dilacerato tra amore filiale e ideale politico. Dalla sua azione violenta, tesa ad evitare la dittatura, nasce nuova violenza ed una peggiore tirannide: quella di Antonio, figura dell'uomo moderno che tutto calcola per volgere la situazione a proprio vantaggio. Egli sconfigge Bruto usando come arma la «parola», che ha il potere di far apparire mostruoso un atto dettato da grandi ideali e viceversa. Quando il popolo è ridotto ad una massa priva di certezze, è in balìa dei padroni della parola: in brevissimo tempo passa nei confronti di Bruto dalla lode al linciaggio.