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Declino dell'islamismo?

Autore:
Creaspo, Gabriele
Fonte:
CulturaCattolica.it ©



La lettura occidentale delle dinamiche politiche del mondo musulmano ha spesso risentito di una coloritura ideologica eccessiva che ha portato a dare troppo peso al "lessico" degli attori islamici a detrimento della sostanza dei loro "comportamenti" o delle loro "pratiche". La criminalizzazione ideologica di coloro che, in ognuno dei sistemi politici arabi così come nell'ordine politico regionale e mondiale, si trovano spesso in prima linea, si dissolve nell'emozionale e nell'irrazionale.
In Algeria, i leaders di una giunta militare che ha avuto e ha un grande ruolo nella manipolazione del terrore, sono diventati "linea di difesa" contro l'integralismo e sono ipso facto stati ritenuti degni di una confidenza senza limiti da parte delle istituzioni finanziarie internazionali. Anche i leaders occidentali sanno bene che la ricetta della minaccia integralista contiene misteriosi enzimi capaci di convertire le angosce dei cittadini in dividendi elettorali. Se esaminiamo la vita politica egiziana, algerina o tunisina vediamo che i media e spesso segmenti dell'apparato accademico ancora verso la fine del 2001 gioivano delle vittorie riportate dal terrore poliziesco e dalla manipolazione mediatica che i regimi arabi così detti "laici" continuano a riportare su una improponibile "minaccia fondamentalista".
Sono nate però, dopo questa visione che possiamo definire della prima generazione, anche altre prospettive.
L'importanza ideologica delle correnti islamiste e la loro relativa centralità nello spettro ideologico delle opposizioni arabe non sono più in discussione:
"In due decenni, la contestazione politica a base religiosa, altrimenti chiamata islamismo, si è imposta come l'unica lingua della protesta sociale e dell'opposizione di fronte a coloro che detengono oggi il potere nella maggior parte del mondo arabo" (Basma Darwish).
E' passato il tempo in cui il fenomeno affondava le sue radici in gruppuscoli della periferia radicale. Nessuno più vede in questi gruppi il risultato di una disfunzione solamente economica che avrebbe prodotto delle sacche di opposizione che escludono poi se stesse dal campo della politica istituzionalizzata per paura del verdetto delle urne.
"La definizione islamista nasconde oggi progetti diversi che vanno dal legalismo più manifesto al rovesciamento del potere, dove gli uni ricorrono alla moschea e gli altri all'omicidio, dove gli uni predicano la rigenerazione morale del mondo musulmano e gli altri l'instaurazione della città islamica" (Baudouin Dupret).
La retorica islamica, sotto il mantello religioso, può veicolare una infinità di rivendicazioni del tutto profane, non solo economiche o sociali ma anche democratiche.
La nuova generazione di lettori dell'islamismo comincia a riconoscere al fenomeno plasticità e diversità insieme con il vigore di dinamiche interne di trasformazione. La retorica di un ritorno planetario del religioso è oggi dimenticata anche da coloro che l'hanno creata. Le visioni puramente moniste del fenomeno così come le antinomie semplificatrici che opponevano l'islamismo alla modernità o alla democrazia troppo spesso erano diventate un passaggio obbligatorio per ogni interpretazione. Questa evoluzione è accelerate dal fatto che non solo la produzione occidentale ma anche quella degli autori arabi di prima generazione stanno perdendo il monopolio della rappresentazione del fenomeno.
Per molti osservatori occidentali il fenomeno islamista è ormai in declino o superato ed è venuta l'era del "post-islamismo". La sconfitta dell'islamismo verrebbe dalla impossibilità delle diverse correnti a riportare la vittoria su regimi dittatoriali che essi combattono. La sconfitta sarebbe resa più semplice dall'isolamento sociale nel quale il ricorso privilegiato alla violenza li ha rinchiusi. La letteratura della sconfitta non è nuova.
I militari algerini affermano dal 1992 di avere cancellato l'islamismo dalla carta politica del paese. Il Refah turco è stato ridotto al silenzio in un momento di massimo consenso. Così è stato per Hamas in Palestina che ha visto confermata nei fatti la sua lettura degli accordi di Oslo. Lo Hizbollah libanese gode di grande popolarità anche al di fuori del Libano, al di là di ogni differenza confessionale. In Marocco le richieste islamiste continuano a mobilitare una frangia della popolazione femminile. E così potremmo continuare per gran parte del paesaggio politico regionale. Potremmo parlare di una crisi dell'islamismo in quanto forze di opposizione se potessimo dimostrare che è stato sostituito da forze politiche laiche capaci di una eguale mobilitazione. Ma in realtà la contestazione degli ordini politici interni e la resistenza alla intransigenza israeliana ci confermano che gli islamisti continuano a fornire nello stesso tempo il ferro della lancia e il grosso delle truppe.

E' nata una certa confusione. Gli uomini e le donne che ci vengono descritti oggi come non più meritevoli di essere considerati islamisti somigliano stranamente a coloro che altri attori hanno nel passato descritto come perfette espressioni del fenomeno.
La fine dell'islamismo algerino viene così fatta coincidere con la trasformazione del FIS in una corrente islamo-nazionalista. I discepoli di Abassi Madani sarebbero davvero diventati nazionalisti oppure non siamo forse di fronte a una sete di rivincita culturale del Sud più che a una ipotetica "rivincita di Dio" o alla componente religiosa dei loro discorsi che sono serviti da sempre per mobilitare le masse? Le donne egiziane avrebbero veramente atteso l'anno 2000 per diventare capaci di unificare esplicitamente l'islam e i valori della modernità oppure le dinamiche della "rivoluzione sotto il velo", che ci sono state così spesso descritte e con grande brio, non erano già forse presenti nei primi anni della rivoluzione? Perché dobbiamo ad ogni costo riaprire porte già aperte per scoprire qualcosa di inedito che ci confermerebbe l'era del "post islamismo"? Come mai allora la "dittatura dei mollah" fondata da Khomeyni è riuscita a produrre un sistema istituzionale che ha consentito agli elettori iraniani di rimandare a casa i loro padroni - presidente e deputati -, mentre nessun sistema reputato laico non ci è riuscito fino ad oggi su scala multiregionale?

La riconciliazione del lessico musulmano con la modernizzazione sociale e la liberalizzazione politica è cominciata all'alba del terzo millennio o era già presente nell'essenza stessa della reazione islamista?
Se non riusciamo a far piazza pulita di queste ambiguità si rischia di cadere, nell'analisi della scena politica araba, in seri malintesi. Se la modernità della corrente islamista è insita nel movimento stesso dalla nascita, mettere oggi nel cassetto l'etichetta "islamista" che potrebbe essere invece applicata alla generazione presente, ci può condurre a una fragile costruzione accademica che non ha nulla a che fare con la realtà. In questo caso la sconfitta è della scienza politica.
Per gli islamisti, come per i regimi che combattono, l'usura del tempo si farà sentire ogni giorno di più. Il potere mobilizzatore che suscita la riconciliazione simbolica tra la modernizzazione, espressione dalla cultura occidentale, e la cultura "indigena", di natura reazionaria, non durerà in eterno. La portata utopica della reintroduzione nel discorso politico di un lessico "endogeno" si indebolirà quando, come in Iran o in Sudan, sarà la bandiera delle elites che detengono il potere. Un giorno avremo certamente il "post islamismo" ma non sono questi gli anni.

Oltre l'islamismo.

Il lessico islamico è stato per lungo tempo marginalizzato dall'egemonia della cultura occidentale, coloniale e post-coloniale. Lo scopo era quello di destabilizzare le elites nate dalla generazione nasseriana o baatista che in qualche posto detengono ancora il potere. Le elites islamiche interagiscono, più di quanto immaginiamo, con l'ambiente politico in cui si evolvono. I regimi avranno le opposizioni islamiche che meritano. Solo reali aperture democratiche permetteranno di ancorarle alla sfera legalista e istituzionale in cui gran parte degli islamisti sono disposti ad emigrare. Questa ineluttabile partecipazione al potere porterà teorici e militanti a confrontarsi con le esigenze della messa in opera pratica dei loro progetti. In questo modo gli eredi di Hassan al-Banna perderanno una parte della loro forza che viene oggi dal coefficiente utopico dei loro discorsi rivolti alle masse.
Sul terreno delle relazioni Nord-Sud è necessario che la panoplia della cultura musulmana abbia completamente ripreso il proprio ruolo nella produzione della modernità universale. Questo implica molti cambiamenti sia per la riva sud che per la riva nord. Il superamento dell'islamismo implica l'emergenza di una modernità consensuale, costruita da attori capaci, per accettare il denominatore comune della modernità, di astrarsi dall'universo delle loro appartenenze.
Bisogna dunque che al sud questa modernità, in un processo di lenta alchimia, possa essere vista al sud non più come imposizione unilaterale di un modello di civiltà unico e allogeno. Al nord, questa evoluzione implica la capacità di ammettere che i valori considerati universali si possono attingere anche da altre culture. La confusione perniciosa che potrebbe nascere non è nuova. Kemal Ataturk aveva imposto, per rendere irresistibile la modernizzazione, una forma di berretto con la visiera, allora molto diffuso in Europa, al posto del fez tradizionale. La reazione islamista generata da un cattivo funzionamento della comunicazione interculturale ha ancora molti anni davanti a sé.

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