La misericordia come arma di rigenerazione di massa, anche in Iraq
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Le immagini e le testimonianze delle abominevoli torture subite dai prigionieri iracheni e dell'atrocità messa in atto come vendetta nei confronti degli americani hanno suscitato sdegno e riprovazione unanime, in occidente come in oriente. Chi, sin dall'inizio, ha sentito la guerra come non risolutiva e foriera di indicibili sofferenze per tutti vede in questi episodi il volto più nefando di un irragionevole conflitto bellico, e quanti hanno invece sostenuto l'intervento armato guidato da Stati Uniti e Inghilterra si scandalizzano di come una così palese e disumana ingiustizia abbia potuto insinuarsi in un progetto di ristabilimento dei diritti civili e della democrazia in un paese che già aveva molto sofferto a causa di un regime totalitario e violento. Il giudizio degli uni e degli altri si incontra in un punto: la dignità umana - del torturato e del torturatore - è stata calpestata, umiliata, dal potere dell'uomo sull'uomo. Il dominio incontrastato sull'altro porta con sé la distruzione del volto umano di chi domina dispoticamente ancor più di chi è schiacciato. La verità dei rapporti tra gli uomini, che è originalmente (prima del peccato) amore al destino proprio e altrui, è negata in nome di una "giustizia militare" che è misura di se stessa, e la libertà dei figli dell'uomo di gridare il proprio desiderio di vivere e di morire non come bestie - agnelli o lupi, non fa differenza - è soffocata dalle grida di una pace senza sacrificio o di una guerra senza pietà (entrambe sono figlie dell'assenza di un ideale che muova le energie dell'uomo). Giovanni Paolo II così scriveva nel 1980 a proposito della tortura: "Cresce la coscienza di un'altra minaccia, che ancor più distrugge ciò che è essenzialmente umano, ciò che è intimamente collegato con la dignità della persona, con il suo diritto alla verità e alla libertà" (Enciclica Dives in misericordia). Qual è la radice della dignità dell'uomo, che sembra essere scomparsa dal volto dei prigionieri così come da quello dei loro aguzzini, dalla faccia del terrorista e da quella del soldato? Senza ragione e senza libertà non c'è dignità per l'uomo, e la dignità è la forza dell'uomo. La forza dell'uomo e della società non è solo o tanto quella delle armi. La forza più grande dell'uomo è la sua ragione e la sua libertà, di cui il senso religioso e la fede sono espressioni supreme. Quanto tale energia sia grande Io si può apprezzare guardando chi non ha altra forza che la propria ragione e la propria libertà, e chiede con questa sola forza che si lavori tutti insieme "per la riconciliazione e per la pace", perché vinca la vita e non la morte. Sì, proprio il Papa - che incarna nella sua persona le parole dell'apostolo: "Quando sono debole, è allora che sono forte" (Seconda lettera ai Corinzi 12,10) - ha usato l'espressione più possente di fronte all'odio e alla violenza, al crimine e alla viltà: "misericordia". Misericordia è una parola coraggiosa ma anche inaudita, che nelle circostanze presenti suona quasi di scherno a chi non è familiare con la sua origine religiosa. Ebrei, cristiani e musulmani riconoscono nella misericordia di Dio il giudizio ultimo sulla vita dell'uomo. Tra i punti che accomunano le tre grandi tradizioni religiose, anche se i rispettivi testi sacri li trattano in modo differenziato, vi è la risurrezione dei morti, e il Papa lo ha ricordato recentemente al termine di un concerto dedicato alla riconciliazione tra ebrei, cristiani e musulmani. L'ultima parola di Dio sulla morte non è la morte stessa, ma la vita. Risparmiare e rispettare la vita dell'uomo è imitare Dio, immedesimarsi con il Mistero che è misericordia, e in questo propriamente consiste la moralità religiosa. Il 21 aprile del 1978 Paolo VI pregava "in ginocchio" gli "uomini delle Brigate Rosse" chiedendo di "restituire alla libertà, alla sua famiglia, alla vita civile l'onorevole Aldo Moro". Nella Domenica della Divina Misericordia, il suo successore sulla cattedra di Pietro "supplica" i terroristi iracheni "di rendere alle famiglie le persone che sono nelle loro mani". In ginocchio, come di fronte alla croce di Cristo. In ginocchio, come è morto Fabrizio Quattrocchi, forse anche Aldo Moro, di certo tante vittime del terrore giacobino, nazista, stalinista, dell'odio etnico che ha insanguinato i Balcani, l'Africa e l'Oriente. L'uomo in ginocchio è un uomo debole, sfinito nella carne ma forte, certo nella vittoria della vita sulla morte. Nel coraggio della misericordia si realizza la positività della vita, anche attraverso la nequizia dei tempi presenti, segnati dall'incertezza e dalla paura. Senza misericordia i terroristi non potranno tornare al lavoro, i prigionieri tra le braccia dei loro cari, i soldati alle loro case. E' la rinascita del volto umano ciò di cui sentiamo la necessità, tutti.
L'unico punto da cui si può ricominciare
E' un momento drammatico e bello al medesimo tempo, perché la fragile creatura (chi è più fragile di un uomo nelle mani di un altro uomo?), l'io umano, torna a essere l'unico punto da cui si può ricominciare. Perché possa riprendersi quel movimento della persona e della società che solo è generatore di vita e di cultura, e dunque di civiltà, occorre una rinascita dell'io, il solo livello della natura nel quale tutto il cosmo diviene cosciente di se stesso. Dopo quello che è accaduto, in Iraq come altrove, l'io umano - l'autocoscienza -si pone come unico luogo genetico di una riscossa per ricostruire quelle che Eliot chiamerebbe "città distrutte" (Cori da "La Rocca"). Il riergersi nel "dopo guerra" è anzitutto un fatto educativo. Il petrolio, i dollari e i cantieri non potranno mai ricostruire sulle macerie di una umanità sfinita, fiaccata da una parte (irachena) dalla negazione della propria identità individuale e di popolo - senza identità non c'è persona né comunità di persone - e dall'altra (occidentale) dalla infiltrazione di un'ideologia debole e confusa, rinnegatrice dell'ideale storico cristiano - senza continuità con la tradizione non c'è futuro da costruire per sé e con altri. La battaglia contro il terrorismo non potrà essere vinta sul piano militare e politico se non lo sarà anzitutto su quello culturale. Il terrorismo è il frutto di una "cultura della morte", come l'ha chiamata Giovanni Paolo II. Una concezione della vita che disprezza la vita, quella degli altri e perfino la propria. Un programma di distruzione della civiltà, perché senza amore alla vita dell'uomo e al suo destino non esiste civiltà. Per cancellare la "cultura della morte" siamo chiamati a costruire - scriveva il Papa nel 1995 - una nuova "cultura della vita" umana, perché Dio ha creato l'uomo per la vita e la pace e non per la morte e il terrore. Per non dimenticare i morti e non morire noi stessi occorre una vera stima dell'uomo, della sua grandezza e della sua miseria, comunque. Il terrorismo e la violenza saranno sconfitti dagli ospedali, dalle scuote, dalle opportunità di lavoro che sapremo costruire nel mondo come luoghi di educazione alla ragione e alla libertà, che promuovano spiritualmente e materialmente la vita dell'uomo.