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Vera e falsa integrazione

Autore:
Cottini, Giampaolo
Fonte:
La Prealpina



E' francamente preoccupante la notizia che in un Liceo milanese si potrebbe formare la prima classe interamente islamica in Italia, perché, al di là delle meritorie intenzioni dei fautori del progetto (che ritengono questo il male minore per consentire a dei ragazzi la possibilità di continuare gli studi), non v'è dubbio che il rischio di creare un pericoloso precedente c'è e che la possibilità di ghettizzare invece che integrare è reale.
Chi è nella scuola sa quanto è delicata la formazione delle classi all'inizio di un ciclo e quanto è importante dal punto di vista pedagogico non riprodurre degli assetti prestabiliti: no a classi di ragazzi solo di un'unica estrazione sociale (per non esasperare le differenze di ceto) o ideologica (per non riprodurre cellule di partito), no a classi solo maschili o femminili (per abituare a vivere in una realtà che è bisessuata), nemmeno classi di soli geni o di intelligenze limitate (per imparare a stare con tutti), e neppure classi di soli cattolici o di atei professi (per evitare che un ragazzo si cristallizzi nella scelta confessionale della famiglia). Il senso di questo criterio è ovvio: se la scuola introduce alla realtà deve far incontrare la diversità e non solo l'eguale, per cui l'elemento di integrazione non sta in un'impossibile uniformità di partenza ma nella coerenza del percorso educativo che propone alla libertà di ogni discente dei contenuti e dei valori su cui confrontarsi personalmente e con gli altri. Questo principio è stato così assunto nel nostro sistema scolastico da far guardare persino con sospetto la possibilità di una scuola libera (confessionale o laica), perché - si dice - toglierebbe spazio al confronto educando solo al dogmatismo e creerebbe personalità incapaci di dialogo. Lo stato offre, invece, eguale opportunità a tutti garantendo gli standard minimi ed assicurando la libertà di educazione attraverso il rapporto con le famiglie.
Non si capisce perciò come mai, ad esempio, si griderebbe allo scandalo se dei genitori cattolici chiedessero di mettere tutti insieme i loro figli nella stessa classe, senza preoccuparsi al contrario di una classe di soli islamici che crea discriminazione rispetto all'intero ambiente scolastico. Ma qui emerge la domanda sull'essenza dell'educazione in un contesto multiculturale e sulla capacità di integrazione della scuola.
Non è buona integrazione culturale quella che porta alla creazione di tante isole separate che esasperino la loro differenza in dialettica con la libertà altrui, né è vera identità quella che fonda un'appartenenza solo sulla visibilità di segni esteriori. Non a caso il compito di una scuola davvero libera è di insegnare (a partire da una chiara ipotesi di significato) a comprendere la realtà confrontandosi anche con altre istanze differenti dalla propria, così da aiutare la coscienza a superare sia il relativismo di chi giustappone tutte le posizioni come se fossero identiche sia l'integralismo di chi vede tutto solo dal suo punto di vista. E' un compito arduo che coincide con la missione dell'insegnante, chiamato a misurarsi con la varietà delle diverse posizioni di partenza senza dover soggiacere al ricatto di precondizioni e pregiudizi, come quelli di chi vuole a priori una classe "anomala" con la minaccia di mandare i figli altrove.
E' ingenuo pensare che il precedente di Milano sia strumento di valida integrazione, perché amplifica le distanze tra i soggetti della comunità scolastica, mentre è certo che questa soluzione evita di rispondere alla questione di come garantire la libertà di educazione senza creare "isole targate" irrispettose della nostra tradizione umanistica di libertà; per questo non è nemmeno un buon inizio per il dialogo tra culture.

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